Casali del Manco: riflessioni su cinema fra realtà e finzione. Pensare con le immagini

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Continuano le “Conversazioni a Macchia”, la rassegna culturale nella Biblioteca Gullo. L’evento ha visto la presenza anche della direttrice della Biblioteca Antonella Bongarzone che ha fatto la relazione introduttiva. Pubblichiamo le riflessioni sul cinema di Romeo Bufalo partendo dalla citazione di Federico Fellini: «L’unico vero realista è il visionario».

A lungo si è pensato, anche sulla scorta della ferma condanna platonica delle immagini, che il luogo naturale in cui si esprime il pensiero umano fosse il logos, la parolalogico-razionale (scritta o parlata), e che dunque ci fosse un insanabile conflitto la tra il ‘visivo’ e il ‘linguistico’, tra la parola e l’immagine; vera la prima, perché esprime direttamente ed autenticamente l’essenza del pensiero e, dunque, della realtà che il pensiero riflette, falsa la seconda in quanto copia sbiadita e depotenziata di essa.

Che le cose non stessero davvero così è testimoniato, fra l’altro, dallo stesso Platone, che esprime le sue ‘verità’ filosofiche attraverso le narrazioni mitiche, cioè immaginative, dei suoi dialoghi, e da Aristotele che, nel De anima, dice che non c’è pensiero senza un’ immagine che lo determini; e, nella Poetica,  che la mimesis, cioè il rifacimento immaginativo delle azioni umane, è decisiva per far vedere aspetti non immediatamente visibili delle cose e degli uomini. Del resto, cos’è il mito platonico della caverna contenuto nel VII libro della Repubblica, in cui delle persone vedono muoversi sullo ‘schermo’ della parete della caverna delle ombre, ossia le immagini ‘proiettate’ dagli oggetti posti alle loro spalle, se non una sorta di cinematografo ante litteram?

Per venire al cinema, non c’è dubbio che esso sia fatto di immagini. E, fin dalle origini, si è portato dentro una costitutiva doppiezza, che è quella enunciata dal sottotitolo di questa Conversazione, in quanto si dispiega tra i fatti e le immagini di quei fatti, tra realtà e finzione; tra documento e narrazione. E questo conferisce al cinema la capacità conoscitiva di farci vedere oltre ciò che vediamo normalmente e gli assegna anche una capacità etica di testimonianza.

In prima approssimazione, però, possiamo dire che il cinema non nasce con intenti esplicitamente narrativi. Il primo “film” della storia del cinema è, come si sa, un brevissimo cortometraggio dei fratelli Lumière proiettato in un salone del Gran Café di Boulevard des Capucines a Parigi nel 1896, che non “narra” assolutamente nulla; fa solo vedere l’arrivo di un treno in una stazione che getta nel panico gli spettatori, i quali temono di essere investiti. E tuttavia, già a partire da quelle prime prove, il cinema si è trovato spesso a raccontare storie. E molte volte le storie che il cinema narra ci sembrano straordinarie perché, come ha notato Pietro Montani, sono costruite secondo principi compositivi irriducibili ai canoni della tradizione letteraria. Anzi, diciamola tutta: spesso il cinema narra ciò che la letteratura non può narrare. La sua, come dice ancora Montani in L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario (1999), è un’immaginazione oltre-letteraria.

Montani sostiene non solo la legittimità del cinema a raccontare, ma dice anche che esso ha nel tempo sviluppato un’attitudine a risalire (o ridiscendere) alle radici profonde del racconto stesso. Come se volesse intercettare e ‘far vedere’ le condizioni di raccontabilità, cioè le condizioni della sensatezza (un racconto è tale in quanto organizza in modo sensato una storia, ecc.). Solo che il cinema fa tutto questo con le immagini e non con le parole.

Cos’è infatti l’immaginazione? È una delle principali attitudini con cui la nostra mente riceve la realtà esterna (il ‘dato’, i ‘fatti’) e le conferisce una unità intelligibile, un significato. Dunque, l’immaginazione ha a che fare con le cose del mondo, con ciò che c’è, con il dato reale, ecc. di cui ci facciamo un’immagine. E però, proprio mentre ce ne facciamo un’immagine, vale a dire nel frattempo in cui elaboriamo i dati immaginativamente, li trasformiamo in significati. L’immaginazione pertanto non è il semplice riflesso meccanico, mimetico, statico di qualcosa che sta, altrettanto staticamente, di fronte a noi. Essa si dispiega invece in una dimensione operativa, dinamica, in un processo elaborativo (che avviene dentro il ‘laboratorio’ della memoria). Possiamo dire che l’immaginazione lavora costantemente, fa la spola, tra il dato reale ed il senso di cui quel dato si carica in seguito all’intervento immaginativo e viceversa, cioè dal senso al dato, il quale apparirà, dopo il lavoro dell’immaginazione, sotto profili diversi. L’immaginazione dunque svolge un ruolo decisivo di intermediazione tra la realtà ed il pensiero. Lavora in quell’ intervallo in cui qualcosa non è più un puro dato insensato ma non è ancora qualcosa di pienamente dispiegato in termini intelligibili.

Il cinema lavora esattamente come l’immaginazione. Esso si inserisce in quel “tra”, in quel “frattempo” in cui qualcosa che è semplicemente dato sta per diventare qualcosa di sensato. Ma lavorare in questa sorta di terra di nessuno significa che la ‘presentazione’ di un fatto (sua semplice riproduzione cine-fotografica) e la sua rielaborazione immaginativa (ossia la sua rielaborazione sensata) non vengono l’una dopo l’altra, come gli eventi dell’esperienza quotidiana, ma si danno contemporaneamente. Questo, come è noto, è il difficile della narrazione letteraria: riuscire a raccontare, lungo la temporalità lineare e continua della scrittura, eventi che accadono su temporalità differite e sfasate (in contrattempi). È ciò che si proponeva di fare Ferdinand, il personaggio di un celebre film di Jean Luc Godard, Pierrot le fou (1964), impersonato da Jean Paul Belmondo. In un momento della sua breve e travagliata esistenza che si concluderà con la morte, egli dice: : “Ho trovato l’idea di un romanzo. Non più scrivere la vita della gente. Ma soltanto la vita. La vita sola. Quello che c’è tra la gente: lo spazio, il suono, i colori. Joyce ha fatto qualcosa in tal senso. Ma si può fare meglio”. Ciò che enuncia Ferdinand difficilmente può farlo la letteratura. Il cinema invece si candida a farlo. Come riesce il cinema a fare ciò che la parola scritta riesce a fare solo raramente?

 Il cinema ci riesce perché centrale è la funzione che in esso svolge il montaggio, vera e propria sintassi filmica, fattore costruttivo del film. E precisamente, il montaggio audiovisivo, grande scoperta di S. Ejzenstejn. Perché in esso vengono coinvolti altri piani, oltre quello visivo, come, soprattutto, quello sonoro-uditivo.

La grande novità introdotta dal montaggio audiovisivo riguarda proprio il tempo: il tempo dell’immagine. Perché diciamo che in tal modo il cinema ci fa vedere e sentire ciò che non vediamo e sentiamo? Perché nel montaggio audiovisivo si assiste ad un doppio movimento, e dunque ad una doppia temporalità: c’è il piano della rappresentazione che scorre lungo l’asse seriale-sequenziale  delle inquadrature (le immagini scorrono lungo un asse temporale lineare). Questa è l’immagine-movimento, come la chiamava il filosofo francese Gilles Deleuze. Ma c’è anche il piano delle immagini ( cioè il piano in cui si elabora il senso) che non scorre lungo un asse lineare ma si svolge lungo una temporalità spostata, differita rispetto a quella lineare-sequenziale. Nel montaggio audiovisivo, in sostanza, il tempo dell’immagine ci fa vedere e sentire ciò che non sentiamo o vediamo ancora direttamente ma lo costruiamo immaginativamente, ossia in termini di pensiero immaginante.

Qualche esempio chiarirà meglio ciò che intendo dire. I primi due esempi li riprendo da Pietro Montani (che ne parla, rispettivamente, ne L’immaginazione narrativa del 1999 e ne L’mmaginazione intermediale, del 2010).

 a) Nel film Il vecchio e il nuovo di S. Eizenstejin del 1929 c’è una scena pienamente narrativa (=immagine-movimento, sequenziale-lineare) in cui dei contadini, nel nuovo clima politico sociale della Rivoluzione d’Ottobre, mietono un campo di segale. Si distingue l’anziano (e conservatore) Zarov, una specie di stakanovista ante litteram che stacca subito i compagni lungo un corridoio che vediamo dall’alto in una ripresa in campo lungo. Ma c’è anche il giovane Vas’ka, biondo e solare, sostenitore delle innovazioni. Anche la sua falce è veloce e presto raggiunge il rude Zarov. Gioco di sguardi drammatico, ridente e quasi sfidante quello del giovane e irritato quello del vecchio. Tensione drammatica della sequenza. A un certo punto la falce di Zarov si alza minacciosa sul giovane. Cosa facciamo noi spettatori nel frattempo? Aspettiamo il colpo fatale (“Oddio, adesso l’ammazza!”). Invece c’è uno stacco improvviso in campo lungo (eccolo il montaggio audiovisivo) sul grande campo di segale. Al posto dell’evento terribile pensato/immaginato siamo introdotti in un silenzio solenne (anche questo immaginato). E da tale immagine silenziosa vediamo emergere la figura di un grillo che si strofina le elitre con le zampette falcate (e noi quasi ‘udiamo’ il frinire, tipico suono di questo animaletto). In questo frattempo la nostra immaginazione sta lavorando su più registri: su ciò che è accaduto e su cosa sta accadendo. Cosa mai vorrà dire la presenza (apparentemente insensata) di quel grillo? Ma l’elemento unificante della sequenza filmica arriva subito: alle zampine falcate del grillo, ed al suo suono (non reale ma pensato) succedono, irrompono sulla scena, le lunghe pale metalliche, anch’esse falcate come le zampe del grillo, di una mietitrice meccanica. Quel conflitto è stato risolto senza spargimento di sangue. Come a dire: “calma, nessun paio di braccia umane può competere con le braccia meccaniche di una mietitrice!”. Infatti, deposte le falci, trionfano i sorrisi ed i due contendenti si abbracciano.

Nel momento culminante del gesto omicida, dice Montani, interrotto dallo stacco in campo lungo, il film entra in una nuova modalità temporale. Abbandona l’ordine sequenziale (lineare) e lavora con un ordine simultaneo (con una temporalità che è la temporalità dell’immagine o l’immagine-tempo, come la chiamava il già citato Deleuze). Ci fa vedere o rende intelligibile lo spazio intermedio che si insinua tra il visivo e il sonoro, dal cui incrocio si genera un ampliamento di conoscenza che ha anche una portata etica (l’etica cooperativa egualitaria e di coesistenza di vecchio e nuovo tipica delle idee socialiste dominanti nell’unione Sovietica degli anni ’20).

b) Se da questo esempio ci spostiamo ad un altro, tratto da un film di circa 80 anni successivo (Buongiorno notte, del 2003, di Marco Bellocchio) la sintassi filmica del montaggio è solo tecnicamente più progredita ma sostanzialmente immutata. Il film ‘narra’ (e ‘documenta’) il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. Un evento che segnò in modo indelebile la vita collettiva-politica ed anche individuale nel nostro Paese. Assistiamo ad un intreccio fecondo tra diversi piani (da quello cronachistico, a quello documentale a quello immaginativo-finzionale). Oltre alla cronaca, nel film ci sono frequenti inserti documentali. Scorrono davanti agli occhi della brigatista Chiara, che fa la guardia al “prigioniero del popolo” filmati e letture che fanno parte dell’immaginario identitario delle BR, stanno alla radice della loro scelta politica: spezzoni cinematografici da Tre canti su Lenin di Dziga Vertov,  Paisà di Rossellini, ecc. Il film sta preparando un incrocio fra racconto storico e racconto di finzione. Molto significativa è, in tal senso, la sequenza in cui le parole scritte da uno dei condannati a morte della Resistenza (il cui libro vediamo sul tavolo del soggiorno e che la brigatista legge di tanto in tanto) vengono pronunciate da una voce fuori campo: “Carissima mamma, domani saremo passati per le armi; ma tu e il babbo non dovete piangere, perché io morirò per la libertà del nostro Paese…”  sfumano in dissolvenza sonora con una delle lettere che Aldo Moro scrisse alla moglie (“Carissima Norina… io sto bene, il mio pensiero è sempre per voi e per l’amatissimo Luca…..”). Le immagini filmiche correlano sullo schermo tali dissolvenze a scene di esecuzioni sommarie con primi piani altamente patetici. È qui che si insedia la “pulsione allucinatoria” finale della liberazione di Moro (un Moro che cammina con un volto sereno e che sembra gustare l’aria fresca di un’alba primaverile romana). Questa liberazione risponde a una doppia motivazione di ordine psicoanalitico: il desiderio di uccidere il padre e al tempo stesso di salvargli la vita. La sequenza narrativa della liberazione del prigioniero non è certo una verità storico-fattuale, anzi: sul piano storico-fattuale, come sappiamo, è un falso. Ma diventa vera (di una verità ‘estetica’ e non ‘logica’) nell’organizzazione narrativa-cinematografica. Perché essa ci mostra, ci fa vedere cosa sia accaduto nella nostra vita collettiva ed individuale con il sequestro e l’uccisione di Moro, al di là della volontà e delle intenzioni delle parti in causa. Questo evento segna per il regista l’ingresso nella notte della politica (Buongiorno notte), ma ci mostra anche, di controbalzo o in contrattempo, l’azione che verosimilmente avrebbe potuto scongiurare questa notte della repubblica, per usare il titolo di un programma televisivo di Sergio Zavoli: la liberazione di Moro non liberato dalle BR o in seguito ad una contrattazione, ecc. Un Moro che guadagna da solo l’uscita dalla prigione e cammina per le strade di Roma quasi sorridente respirando l’aria rinfrescata da una lieve pioggia marzolina. Tale sequenza mette in scena un evento irrealistico e impossibile ma viene offerto dalla forza narrativa del cinema come se fosse un evento vero, di una verità non fattuale ma estetica, per l’appunto.

Anche film come La dolce vita (1960) o (1964) di Federico Fellinici dicono di più di quanto ci potrebbe dire un trattato di sociologia, di psicologia, di economia, di antropologia, ecc. Solo che ce lo dicono con le immagini e non con le parole. Fellini è stato uno dei registi universalmente più apprezzati. Anche i suoi film non sono una semplice ‘copia’, una piatta riproduzione mimetica del reale, ma una sua riorganizzazione filmica (smontaggio e rimontaggio di temporalità diverse, potremmo dire) per far emergere attraverso le immagini montate dinamicamente, squarci emotivi-sentimentali, pensieri, dubbi, paure, contraddizioni che sono dei topoi dell’animo umano: ma tutto questo deve emergere dal montaggio del film (Aristotele diceva che l’effetto tragico deve sorgere dalla composizione stessa delle azioni). I film di Fellini, infatti, come è stato detto, sono un happening continuo tra la vita e la rappresentazione della vita; ancora una volta: esplorano quel ‘tra’ di cui parlava il protagonista del film di Godard, ossia la dimensione intermedia che la cinepresa riesce a cogliere ed a far venire a galla, cioè a far intra/vedere (proprio come in una seduta psicoanalitica emergono le pulsioni e le tensioni più segrete di un individuo; fra l’altro Fellini ha avuto una lunga consuetudine con lo psicoanalista junghiano Ernst Bernhardt). In Fellini infatti, specie in non c’è la scena tradizionale che si snoda in modo lineare, quasi teatrale (v. l’immagine-movimento); c’è solo un mondo interiore e sentimentale che emerge a tratti e a scatti di fronte a noi attraverso una temporalità propria dell’immagine (v. l’immagine-tempo). Fellini inizia come autore ‘realista’ (con R. Rossellini in Roma città aperta), ma prende subito una strada diversa. Non ‘irrealistica od antirealistica ma di un realismo che potremmo definire immaginativo; il suo è un sur-realismo cinematografico. In un’intervista a Sergio Zavoli del 1965 dirà che il sogno è la realtà più sconvolgente che ci sia. Perché ciò che vive nell’immaginazione è più autenticamente reale di ogni realtà quotidiana. Liberare l’immaginazione vuol dire pertanto non nascondere le proprie debolezze o contraddizioni, ma viverle senza soluzioni confortanti (tipiche dell’happy end, questo sì irreale e inautentico).

In altri termini, il cinema di Fellini è alla costante ricerca dell’uomo e lo aiuta a decifrare il mistero della vita. Fellini fa tutto questo mettendosi a nudo, confessandosi in una sorta di autobiografia cinematografica in cui racconta i propri sogni. In tal senso, al neorealismo (Ladri di biciclette, Riso amaro, Paisà, Sciuscià, ecc.) egli contrappone, o meglio, affianca, una sorta di surrealismo; nel senso che racconta non la realtà della coscienza, ma la surrealtà dell’inconscio (dando forma cinematografica ai nostri fantasmi, ai nostri tic, alle nostre nevrosi, ecc.). In La dolce vita ed in , in particolare, Marcello Mastroianni (nei panni di un giornalista nel primo film e di un regista nel secondo) è l’alter ego di Fellini e ci fa vedere una sorta di autobiografia onirica, fatta di sogni. La stessa Roma notturna de La dolce vita (in bianco e nero) degli anni ’60 sembra scorrere in un’atmosfera di sogno. In una delle scene più oniriche del film, l’attrice svedese Anita Ekberg, che impersona proprio un’attrice venuta a Roma per giare un film, conosce Marcello. E girando con lui di notte per le vie di una Roma quasi deserta e surreale, a un certo punto, a Fontana di Trevi, l’attrice entra nella vasca e chiama Marcello (“Marcello, come here!”). E lui ci va. Ma il significato è tutto surreale, simbolico: il ritorno nell’acqua primordiale, purificatrice (o battesimale), il ritorno alla Madre, ovvero alla donna-madre nell’acqua (-liquido amniotico) che rinnova e purifica la vita, ecc. Infatti Marcello dice: “Ma sì, hai ragione tu, stiamo sbagliando tutto!” Come a dire: Bisogna ritornare alla Natura, alle Origini: cioè, all’autenticità della vita, al di là di quella finta e nevrotica che stiamo vivendo nella quotidianità anonima e senza senso.

Tutto questo senso di vuoto e di incomunicabilità e di alienazione emerge nitidamente nella scena finale quando, sulla spiaggia di Ostia, un enorme enigmatico pesce giunge a riva e tutti cercano di capire cosa sia ma rimane un mistero (come un mistero è la vita). Poi Marcello/Federico si allontana dal gruppo e sull’altro lato della spiaggia una dolcissima figura di ragazza lo chiama, ma lui non sente nulla (il rumore delle onde del mare impedisce di sentire). Lei allora gli fa segno di andare da lei, dall’altra parte (della vita?) e di seguirla, ma Marcello a gesti sembra dire: non ti sento; e poi apre le mani come per dire: “che ci vuoi fare, devo andare” E le fa ciao con la mano. Ecco: Da quale temporalità è emersa, all’improvviso, quella figura di fanciulla? Da un ‘altro’ tempo; quello che forse può salvare Marcello/Federico dall’insensatezza e dall’estraneazione a se stessi che caratterizza la vita reale. Il tempo ‘cinematografico’ dei sogni e dell’immaginazione, che purtroppo non riusciamo a cogliere (quello che i Greci chiamavano il kairòs, il tempo debito, il tempo ‘giusto’, ecc.).

Ma se La dolce vita ha ancora qualche riferimento mimetico alla realtà urbana (lo sfondo della città di Roma, per quanto surreale e onirica), fa un ulteriore passo avanti. Il film è tutto un lungo sogno del protagonista: il film è un film su un regista in crisi di identità che deve fare un nuovo film ma che non riesce a farlo. Il film inizia in un’atmosfera di sogno inquietante: il regista è intrappolato nel traffico della città e sigillato nella sua auto (metafora dell’alienazione in una società meccanizzata). La realtà ci sigilla, non dà vie di fuga. Tenta di evadere volando, unico modo (immaginativo) di superare l’angoscia esistenziale del presente. Il protagonista alla fine del volo si tuffa nel mare (l’acqua primigenia, ritorno al grembo materno, alla vita autentica, ecc come ne La dolce vita) ma due uomini sulla spiaggia gli agguantano una caviglia con un laccio (coma a dire:”Dove pensi di andare?, ritorna qui nella realtà quotidiana in cui non riesci a vivere, ecc.). Il nodo che lo stringe è l’incapacità di scegliere tra le possibilità della vita: la moglie Luisa (=sicurezza), l’amante Carla (Allegria e leggerezza, divertimento), la ragazza Claudia (bellissima, Musa sospesa tra la quotidianità e il mito, la realtà e la finzione). Le tre attrici sono, rispettivamente, Anouk Aimèe, Sandra Milo e Claudia Cardinale.  Nel cinema di Fellini tutto è completamente finto ma, paradossalmente, tutto è profondamente vero proprio perché finto. Ed è vero di una verità non storica, fattuale, ma estetico-filmica (v. ancora Aristotele). Si pensi al ballo finale di 8½, il ballo dei circensi, il ballo dei folli, commentato dalla struggente musica di Nino Rota, in cui centrale è la figura del clown, del circo (una vera ossessione di Fellini, già a partire da La strada). Il clown nel cinema di Fellini è il caos, la stonatura rispetto all’ordine, il disordine che fa irruzione nel mondo; il casuale e l’accidentale che accade senza un perché; accade e basta. La vita è così. Dobbiamo accettarla nel suo disordine e nella sua imprevedibilità e lottare dentro la vita, in quel tra che spesso non vediamo, non contro la vita. Viviamola con gioia, teniamoci per mano in questo gran ballo dell’esistenza e forse saremo liberi ed assaporeremo un po’ di felicità. Infatti le tre donne alla fine si prendono per mano, tutte le figure, dai costumisti agli attori ai truccatori, a tutte le maestranze, si prendono per mano e fanno un girotondo intorno al mondo (come canterà Sergio Endrigo, forse pensando/immaginando questa scena surreale eppure realissima di Fellini). Tutto questo pensiero Fellini non ce lo esprime in un logos ordinato, con parole di una lingua, in una prosa ed in un racconto cinematografico lineare, ma con i tempi e le inquadrature sfasate e disarmoniche e con-fuse delle riprese e del montaggio cinematografico, sempre imprevedibile e inaspettata come imprevedibile ed inaspettata è, in fondo, la vita. La vita è senza senso, e noi tentiamo disperatamente di dargliene uno. Forse il senso del cinema (e del pensiero) di Fellini è racchiuso in quanto dice in un’altra intervista, in cui fa riferimento ad un personaggio di Amarcord; un vecchio, quello che impersona il nonno del regista da piccolo a Rimini, esce di casa e si inoltra in una nebbia fittissima, in cui non si vede assolutamente niente. Fa pochi passi, poi torna a casa…e muore. “Ecco –dice Fellini nell’intervista- io vorrei che ciascuno di noi uscisse di casa ma non trovasse un muro di nebbia davanti a sé, bensì vedesse i colori, sentisse i suoni, assaporasse i sapori, insomma, sperimentasse quello che c’è non nelle persone ma tra le persone; cogliesse la vita e poi tornasse in casa  e morire (se proprio deve morire) contento di aver assaporato la vita.

Sogni di un visionario? Può darsi. Ma i sogni fanno parte della vita, parlano di essa. E Fellini diceva che “l’unico vero realista è il visionario”, perché siamo più ‘veri’ nei sogni che nelle nostre ‘maschere’ quotidiane. Del resto, è stato un grande drammaturgo come William Shakespeare a dire, ne La tempesta, che noi “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” (“We are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep.”; letteralmente: “noi siamo fatti come la stoffa dei sogni, e la nostra breve vita è delimitata dal sonno”)

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