“L’Italia è un paese per anziani” o “i giovani non vogliono lavorare”, “Se ne vanno tutti all’estero ormai”: sono i toni con cui negli ultimi tempi viene affronta la questione demografica in Italia. Spesso affiancata, più o meno impropriamente ai temi della famiglia o dell’emigrazione. Analizziamo l’argomento e le conseguenze per i giovani, partendo dai dati recentemente diffusi dall’Istat, nella nuova edizione di “Noi Italia”.
L’Italia è un paese per vecchi: verità o falso mito
L’argomento, rappresenta indubbiamente un nodo chiave da sciogliere per capire in che direzione si muove il futuro del nostro Paese.
Le statistiche Italiane in merito sono tra le più attendibili. Ad oggi abbiamo un’età media molto elevata, attorno ai 45,2 anni. Lo confermano i numeri diffusi dall’Ocse, secondo cui tra i Paesi europei l’Italia è quello con la più bassa quota di giovani tra i 15 e i 29 anni, il 15% contro la media del 19%, e, soprattutto, contro il 23% del 1960. Sicuramente sui dati precedenti influisce anche il minimo tasso di natalità registrato dall’Istat, che si attesta intorno al 1.24% nel 2020.
Secondo la nuova edizione di “Noi Italia” dell’Istat in Italia sono 187 gli anziani per ogni 100 giovani. Sfortunatamente 1 su di 10 di questi ultimi abbandona gli studi già alle superiori.
Tuttavia, è davvero solo la questione demografica il motivo primario dell’espatrio o della rinuncia agli studi giovanile? O lo è forse la crescente percezione di avere opportunità limitate qui nel nostro paese? Che inevitabilmente e subdolamente spinge i giovani a cercare altrove e getta le basi per una società costituita in prevalenza da anziani. Un tipo di società che si qualifica per forza di cose tra le più conservatrici, arretrate, ferme rispetto ai competitor europei dal punto di vista della valorizzazione dei giovani.
Povertà educativa di opportunità e la conseguente fuga di cervelli dall’Italia
L’inefficace comunicazione tra le istituzioni e le famiglie, la poca corrispondenza tra le iniziative proposte durante le campagne di propaganda politica e quelle effettivamente messe in atto e la poca attenzione rivolta alle opportunità per i giovani sono sicuramente la causa della crescente frustrazione giovanile.
In Italia 1 giovane su 4 teme di arrivare a 40 anni privo di un impiego stabile e una famiglia.
Sono poco più di 40mila i giovani italiani tra i 25 e i 34 anni espatriati nel 2020 (il 33% del totale degli espatriati); di essi due su cinque (18mila) sono in possesso di almeno la laurea (+10% rispetto al 2019). Il numero dei rimpatri di giovani laureati si attesta su livelli nettamente più bassi (6 mila, -3,5% sul 2019), generando un saldo migratorio negativo che si traduce in una perdita di circa 12 mila unità. Cresce anche l’incidenza degli espatriati laureati sulla popolazione italiana laureata di 25-34 anni, dal 9,9‰ del 2019 al 10,5‰ del 2020.
Problematiche sulle quali riflettere: “I giovani in Italia non vogliono lavorare”
Dunque, se i giovani riescono a laurearsi in Italia espatriano però in cerca di opportunità lavorative più sicure. Questo è il segnale di una crisi ancora più profonda e degradante che riprende una delle affermazioni riportate in precedenza: “I giovani non vogliono lavorare”. È il contrario, vogliono ma forse non gli è concesso, o per lo meno non a condizioni accettabili.
Le problematiche principali riscontrate sono le seguenti.
In ambito scolastico:
-La pressione sociale riposta sugli studenti e poca attenzione rivolta alle loro necessità psicofisiche. Questioni che inevitabilmente influiscono negativamente sul benessere e sul rendimento dei giovani, conducendo addirittura alcuni di loro a compiere l’estremo gesto. Fenomeno in vertiginoso aumento del quale siamo stati testimoni, soprattutto negli ultimi mesi, per via della risonanza mediatica che hanno assunto le tragedie.
-Da un lato l’Italia pressa le nuove generazioni a studiare senza garantirgli posti di lavoro adeguati dall’altro le spinge ad abbandonare gli studi o ad espatriare, poichè alla fine diventa quasi più vantaggioso un lavoro sottopagato o allontanarsi dal proprio paese in cerca di stabilità.
-Assenza di reali e funzionali percorsi di alternanza scuola-lavoro.
-Scarso tasso di investimento nelle infrastrutture scolastiche e nei metodi di insegnamento, ancorati sempre più a modelli superati dal punto di vista dell’efficacia e della modernità.
Di recente abbiamo assistito alle dichiarazioni di uno dei vertici del governo attualmente in carica, secondo cui “l’umiliazione è ciò che serve ai nostri ragazzi”. Teniamo a precisare che no, ciò che noi pensiamo serva umilmente ai nostri ragazzi sono ideali, forse pretenziosi, di fiducia e rispetto.
In ambito lavorativo:
-Assenza di norme sul salario minimo. In questo scenario il salario minimo, sebbene non possa totalmente risolvere la piaga dei lavoratori poveri, potrebbe, per certi versi, rivelarsi una misura efficace.
I dati così come importante diffusione delle testimonianze dei giovani sui social ci permette di capire che in Italia “le buste paga sono ferme dal 1990 e quest’anno la super inflazione ridurrà di un altro 3% il potere d’acquisto. In totale 3,5 milioni di venti e trentenni vivono un disagio occupazionale” come riporta il giornale Repubblica
Le conseguenze di un paese che non investe nei giovani
In conclusione, le reali problematiche che spingono altrove i giovani, lasciando all’Italia un grande numero di anziani sono: l’enorme disattenzione nei loro confronti, un’ideologia di base secondo cui l’umiliazione “nobilita l’uomo”, assenza di opportunità lavorative vantaggiose e ben regolamentate. Problematiche su cui è necessario lavorare.
Giovani, studenti, lavoratori necessitano di interventi concreti che li aiutino a costruire il proprio futuro e magari, quello del proprio Paese, privi della necessità di evadere.