La subfornitura e le basi morali del rapporto centro-periferia

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di Guglielmo Forges Davanzati

Banca d’Italia, nei Rapporti 2022 e 2023, certifica che, in Europa, con la sola parziale eccezione della Germania, è in atto una doppia divergenza: quella fra aree ricche e aree povere e fra aree interne e città.

Il Mezzogiorno risente pienamente di questa dinamica. In un contesto generale di crescita delle diseguaglianze, va segnalato il dato per il quale queste sono sempre più spaziali.

Le aree centrali dello sviluppo capitalistico (Stati Uniti, Europa centrale, Cina) vedono aumentare la loro ricchezza, sia in termini assoluti, sia in termini relativi, con le aree periferiche che arretrano.

Moderazione salariale e squilibri regionali

È un dato di fatto, registrato da un’ampia evidenza empirica, che le periferie del capitalismo – qui segnatamente il Mezzogiorno d’Italia – hanno una dotazione di capitale sociale (calcolato sulla base di numerosi indicatori, tutti convergenti nell’attitudine al rispetto delle norme morali) inferiore a quella del Centro.

Non vi è unanimità fra economisti, sociologi e storici economici in ordine alle cause di questo fenomeno.

Appare abbastanza plausibile ritenere che più che il prodotto della Storia, ciò sia imputabile proprio al rapporto di subordinazione e dipendenza che la periferia instaura con le aree centrali della riproduzione capitalistica: molto spesso, tale rapporto si manifesta sotto forma di ordinativi che le grandi imprese del centro inviano, per rapporti di subfornitura, ai fasonisti della periferia.

Il potere contrattuale, in tali rapporti, è asimmetrico. Si tratta, di norma, di poche grandi imprese in oligopolio al centro che lavorano con molte piccole imprese, in condizioni di concorrenza, in periferia. Per tutelare i propri margini di profitto, le imprese del primo tipo spingono le seconde a strategie di breve periodo di compressione dei costi (dei salari e dei costi connessi ai diritti dei lavoratori). Non a caso, come mostra l’evidenza empirica, i rapporti di lavoro precari sono più diffusi nel Mezzogiorno. Alla luce di queste considerazioni, si può ritenere che il deterioramento del capitale sociale è semmai l’effetto, non la causa, del sottosviluppo del Mezzogiorno (Coleman, 1990).

La spinta alla moderazione salariale al Sud significa anche spinta alla violazione di alcuni essenziali codici etici che vengono, per contro, rispettati nei rapporti di lavoro al Nord, in una configurazione nella quale l’economia del centro cresce mediante incrementi di produttività, causati dall’avanzamento tecnico, dalla ricerca scientifica e dalle emigrazioni intellettuali dalla periferia, mentre l’economia della periferia si allontana da quella del centro come conseguenza del fatto che prova a essere funzionale alla prima attraverso la compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori.  La riduzione dei salari al Sud, infatti, consente alle imprese del Nord di mantenere almeno inalterati i profitti e questo rapporto di dipendenza si rende possibile dato il superiore potere contrattuale delle imprese del Nord rispetto ai loro fornitori intermedi meridionali: i primi operando, infatti, in forme di mercato oligopolistiche, mentre i secondi in concorrenza. È questo, dunque, fin qui un caso ulteriore nel quale il mercato propaga e amplifica diseguaglianze regionali.

La progressiva riduzione del Pil pro capite al Sud ne deteriora il capitale sociale, accrescendo la propensione a transazioni illecite. Siano, come esempi, il lavoro nero (infatti più diffuso nel Mezzogiorno) e la peggiore qualità delle istituzioni (per esempio, la quasi totale assenza di amministratori pubblici con meno di 40 anni,).

Il meccanismo, con ogni evidenza, si autoalimenta: l’attivazione di rapporti economici dal Sud al Nord impoverisce il Sud; l’impoverimento del Sud impatta negativamente sui codici etici delle sue imprese e quest’ultimo fattore, a sua volta, contribuisce a generare ulteriore impoverimento.

La selezione delle classi dirigenti al Sud

 Si può discutere, a riguardo, il problema della qualità degli amministratori locali. Gli amministratori over 40 hanno ovviamente un network di conoscenze più potenziato (per ragioni banalmente anagrafiche) degli amministratori under 40. I primi, selezionati in competizioni politiche locali, hanno, dunque, un vantaggio posizionale perché si avvalgono di un’incidenza del voto di scambio superiore a quella dei secondi.

È interessante osservare che succede a volte che nei rapporti Centro-periferia, il Centro detta le regole morali alla periferia e può finanche moralizzarlo.

Per capire questa dinamica, è utile raccontare brevemente quanto succede nel polo di Casarano, all’estremo lembo meridionale della provincia di Lecce. Ci si riferisce al caso di un infortunio sul lavoro, nel polo di Casarano qualche anno fa, mai più ripetutosi a ragione dell’intervento, sui fasonisti locali, del committente francese, timoroso di perdere in Borsa per perdita di reputazione.

Uno dei maggiori economisti italiani della seconda metà del Novecento, il napoletano meridionalista Augusto Graziani scriveva: “l’economia del Mezzogiorno ha trovato un suo equilibrio da economia sussidiata, dotata di scarsa capacità produttiva ma di flussi regolari di spesa pubblica. Anche la società del Mezzogiorno si è andata adeguando a questo schema, ed è oggi dominata da un ceto di politici, amministratori, mediatori affiancati da un ceto altrettanto nutrito di esperti, professionisti, intellettuali. Questo blocco sociale, che si è mostrato capace non soltanto di procurarsi il consenso locale ma anche di ottenere l’appoggio esterno, si tiene saldamente in sella […] Se l’economia del Mezzogiorno dovesse un giorno disporre di un saldo tessuto produttivo, se una classe lavoratrice stabile diventasse il nerbo della nuova società del Mezzogiorno, i ceti dominanti di oggi sarebbero inesorabilmente disarcionati”. Nessuna sorpresa quindi sela classe sociale che oggi controlla la spesa pubblica del Mezzogiorno mantiene comportamenti che si presentano di fatto ostili all’industrializzazione”.

Questo passaggio è di massima rilevanza per analizzare le basi teoriche del progetto dell’autonomia differenziata. La teoria economica leghista fa propria la convinzione secondo la quale è solo rendendo scarse le risorse nel Mezzogiorno – attraverso la riallocazione territoriale delle risorse a beneficio del Nord – che si spinge il ceto politico locale, assunto molto più inefficiente e corrotto di quello del Nord, a farne uso produttivo a beneficio dei residenti.

Questa impostazione è sbagliata. Il Mezzogiorno, dall’inizio degli anni Novanta, ha visto sempre e significativamente ridursi i flussi di spesa pubblica indirizzata da Roma e, per dirla con Graziani, ha dovuto trovare un suo nuovo “equilibrio”, che si è tradotto in un netto peggioramento delle sue condizioni, certificato empiricamente da un continuo aumento dei divari regionali anche a partire da quegli anni. Dunque, la tesi leghista non regge alla prova della Storia recente: la riduzione della spesa pubblica nel Mezzogiorno riduce, non accresce, l’efficienza. Perché allora reiterare l’errore, se l’obiettivo – almeno quello dichiarato – è di produrre sviluppo con meno spesa?

Il processo di crescente impoverimento materiale delle periferie – in primis, il Mezzogiorno italiano – va di pari passo con la crescita della loro povertà culturale.

Una recente indagine dell’ISTAT, dal titolo “Accessibilità dei musei e delle biblioteche in Italia” del dicembre 2022, evidenzia il fatto che sia la domanda sia l’offerta di prodotti culturali e artistici nel Mezzogiorno è di gran lunga inferiore al resto d’Italia. La domanda di cultura, in particolare, dipende positivamente sia dal reddito disponibile sia dal modo in cui i residenti strutturano le loro preferenze: all’opposto, la povertà culturale tende a generare comportamenti dannosi per sé stessi e per gli altri, come il gioco d’azzardo quando le scommesse sono molto alte rispetto al reddito disponibile individuale e quando sono frequentemente ripetute.

In circa dieci anni, la Germania è riuscita nella storica impresa di ridurre i divari interni fra la parte ovest e la parte est del Paese. L’Italia, invece, li ha visti quasi costantemente aumentare a partire dalla sua unificazione. La Lombardia si conferma – nell’ultimo Rapporto SVIMEZ – l’area del Paese con il più alto Pil pro capite, mentre le aree tradizionalmente meno ricche diventano sempre più povere. I 37.300 euro della Lombardia si contrappongono ai 17.100 euro della Calabria, con la Puglia a euro 18.100. La regione più povera d’Europa fa parte della Bulgaria (Severozapen, con un Pil pro capite pari a 8.600 euro).  

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