L’Italia è finita

0
829

Il 23 gennaio 2024 con l’approvazione in Senato, in prima lettura, dell’autonomia differenziata è morta l’unità d’Italia. Anche se, in realtà, non è mai iniziata, probabilmente: basti considerare che i primi atti del nostro Stato erano scritti in lingua francese, chiara declinazione del nostro stato di colonia. Tuttavia, il punto è un altro, e cioè che finalmente si è attuato – almeno in parte – il ‘Piano Miglio’. Ecco, si è scritto molto del ‘Piano Gelli’, ma sull’ideologo della Lega Nord (Gianfranco Miglio) si è spesa poca attenzione.

Una sorta di ‘Zes unica meridionale’ e secessione: questi erano i pilastri del ‘Piano Miglio’. Ovviamente, quando si parla di separatismo, esso non può avvenire dall’oggi al domani: il processo è graduale, pena l’incostituzionalità. Da qui il concetto di autonomia differenziata, sostenuta dal centrodestra e dal centrosinistra settentrionale. Un blocco unico.

Se vi dicessimo che la Lega Nord abbia architettato con il piduista Licio Gelli per attuare la secessione e far gestire il Sud alla mafia, non ci credereste. Andiamo quindi per gradi. La svolta avvenne nel 2001: al Governo c’era una maggioranza di centrosinistra, che approvò la riforma del Titolo V della Costituzione, volta a potenziare le autonomie territoriali abbandonando la concezione centralistica statale. Di fatto si andò a ribaltare un punto cardine della Costituzione: se nei principi ogni materia non espressamente attribuita ad altro ente doveva rimanere in capo allo Stato, dopo la riforma tali competenze andavano a spettare alle Regioni, che si sostituivano così a “Roma”.

Successivamente, il 28 febbraio del 2018, a soli 4 giorni dalle elezioni, il Governo Gentiloni (con la Lega all’opposizione) approvò tre accordi preliminari con il Veneto (di Zaia), la Lombardia (di Fontana) e l’Emilia-Romagna (di Bonaccini), attraverso cui le 3 regioni gettarono le basi per richiedere l’autonomia differenziata. C’è da chiedersi come mai un Governo ‘scaduto’, che avrebbe dovuto occuparsi solo di ordinaria amministrazione, abbia approvato degli accordi di tale rilevanza.

Facciamo un piccolo balzo indietro, di qualche anno ed entriamo nel vivo della vicenda.

Leonardo Messina, storico uomo di fiducia di Giuseppe Madonia (tra i più potenti e sanguinari boss mafiosi di Cosa Nostra), fu il primo collaboratore di giustizia a indicare Giulio Andreotti quale referente politico della mafia: le sue dichiarazioni, rese anche al giudice Paolo Borsellino, contribuirono ad arrestare oltre 200 mafiosi.

Ma, soprattutto, fu anche il primo a denunciare un piano segreto ed eversivo, volto a minacciare l’unità nazionale. Una pista che, inizialmente, colse impreparati i Pm, che si trovarono innanzi ad uno scenario inquietante che vedeva coinvolti Licio Gelli, la mafia, la Lega Nord e addirittura gli Stati Uniti d’America. S’interessò del caso il pm della Procura di Palermo Roberto Scarpinato, che aprì l’inchiesta denominata “sistemi criminali”.

Venne archiviata, salvo poi essere riaperta. Seguì una seconda archiviazione e, ancora una volta, venne riaperta. Impreziosendosi con audizioni di pentiti, magistrati, politici, esponenti delle forze dell’ordine. Il caso si allargò e fu gettata luce su una trattativa Stato mafia. Un polverone senza precedenti, condensato in centinaia di migliaia i documenti. Nel calderone finirono politici illustri, mafiosi e imprenditori.

Addirittura, saltò all’onere della cronaca anche un’intercettazione (“casuale e irrilevanti per le indagini” diranno i pm) tra l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Intercettazioni distrutte dal gip di Palermo mentre Napolitano si preparava a giurare per il suo secondo mandato al Quirinale, nel 2013. La vicenda divenne così grossa da offuscare l’inchiesta da cui era partita: torniamo, dunque, alle dichiarazioni rilasciate da Leonardo Messina qualche anno prima.

Leggendo attentamente gli interrogatori e le carte dell’inchiesta, balzano agli occhi degli scenari inquietanti. In particolare, secondo Messina negli anni ’90 fu deliberato un disegno finalizzato alla “creazione di uno Stato indipendente del Sud all’interno della separazione dell’Italia in tre stati. In tal modo, Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato”. Quando il pm chiese: “Le spinte separatiste vengono da fuori o sono dentro i confini nazionali?”, Messina rispose “Penso che vengono da fuori dei confini nazionali”. Approfondendo il carteggio processuale, si apprende testualmente che “secondo Messina, il progetto, per finanziare il quale sarebbe stata stanziata la somma di mille miliardi, fu concepito dalla massoneria con l’appoggio di potenze straniere e coinvolgeva non solo uomini della criminalità organizzata e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali”.

E ancora: “Il progetto consisteva nella futura creazione di un nuovo soggetto politico, la Lega Sud o Lega Meridionale, che doveva essere una sorta di “risposta naturale” del Sud alla Lega Nord”, ma che in realtà era “al servizio di Cosa Nostra”. Uno dei protagonisti dell’operazione sarebbe stato Gianfranco Miglio, vero artefice dell’operazione politica “Lega Nord”, dietro il quale vi sarebbero stati Gelli, Andreotti e non meglio precisate forze imprenditoriali del nord interessate alla separazione dell’Italia in più Stati”.

Fermiamoci un attimo. In poche righe avete appena appreso che (stando a queste dichiarazioni) la Lega Nord, tramite il suo ideologo Gianfranco Miglio, avrebbe avuto una parte significativa in un tentativo di golpe statale, volto a suddividere il Paese in macroregioni (uno dei punti del Piano di Gelli e, negli ultimi anni, del Centrodestra), lasciando il Mezzogiorno nelle mani della mafia. Il tutto con la complicità di potenze straniere (si citano gli Stati Uniti), del piduista Licio Gelli e del più volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Cioè, è mai possibile tutto questo? Sembra una tesi complottista, una bufala. Così, siamo andati a studiare meglio il profilo del padre della Lega Nord, il Senatore Miglio, venendo a conoscenza di alcune sue dichiarazioni (rilasciate nel ’92 al Giornale) che sembravano gettare le basi per il tentativo di golpe denunciato da Messina: “Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ’Ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”.

Il padre della Lega Nord voleva costituzionalizzare la mafia affidandone la gestione dei meridionali, parole agghiaccianti che trovarono conferma in un’intercettazione ambientale del 2017 (nel carcere di Ascoli Piceno) che colse alcune parole del mafioso Giuseppe Graviano, stratega delle stragi dei primi anni ’90. Secondo cui Miglio “scese in Sicilia perché aveva un bel progetto e s’incontrò pure con Nitto” Santapaola, il capo di Cosa nostra a Catania. La questione era molto complessa.

Da un lato vedeva il boss Matteo Messina Denaro interessarsi ad un “appoggio americano al progetto separatista (come dichiarò Sinacori Vincenzo, già reggente del mandamento di Mazara del Vallo). Dall’altro Licio Gelli farsi in quattro per irrobustire “i rapporti con la Sacra Corona Unita (rendendosi anche disponibile per l’aggiustamento di processi in cassazione) al fine di ottenere appoggi per l’esperienza politica dei movimenti leghisti meridionali”, che sarebbero dovuti nascere come risposta naturale (ma studiata a tavolino) alla Lega Nord. Tant’è che proprio il partito padano, secondo i collaboratori, sedeva al tavolo dei cospiranti. Tesi che sembra essere stata confermata da Massimo Pizza, legato ad esponenti di spicco della criminalità organizzata.

Quest’ultimo riferì ai magistrati di aver appreso da Carmelo Cortese (indicato come piduista ed esponente di vertice della ‘ndrangheta) che “la lega meridionale era la longa manus di Cosa Nostra e che doveva attuare un progetto di rivoluzione politica, ispirato da Licio Gelli, sfociante in una nuova forma di stato. Per la riuscita del progetto si erano stabiliti, fin dal 1989, rapporti con la Lega Nord, con la quale si sarebbe dovuto stringere un patto elettorale”. Il progetto era così grosso e articolato che, addirittura, per distogliere l’attenzione e non dare troppo nell’occhio iniziò la stagione degli attentati al Nord, come confermò il collaboratore di giustizia Tullio Cannella, secondo cui “Le stragi al Nord erano finalizzate a distrarre l’attenzione dal problema di Cosa Nostra in Sicilia, e a creare un clima propizio per addivenire in quel momento in tempi più brevi alla separazione dell’Italia fra Nord e Sud”.

Ma qual era il vero obiettivo? Cosa si celava dietro questo disegno? E, cioè, perché si voleva dividere l’Italia in due-tre parti? Ricomponendo le dichiarazioni dei pentiti viene fuori un progetto chiaro e coerentemente diabolico, che avrebbe favorito l’imprenditoria settentrionale così come la mafia. L’autonomia amministrativa del Sud avrebbe favorito la creazione di un nuovo paradiso fiscale mediterraneo, un’area offshore non più illegale e attrattrice di capitali stranieri. Punto di riferimento di tutti i traffici leciti e illeciti, un luogo dove il Nord e le potenze straniere avrebbero potuto investire con una tassazione ridottissima. Una sorta di mega Zona Economica Speciale gestita dalle mafie.

‘Vabbè, è tutto un discorso complottista, basato solo sulle dichiarazioni di decine di pentiti. Com’è possibile che la Lega Nord abbia questa genesi? Com’è possibile che Licio Gelli, pezzi di Stato, Miglio, Bossi e mafiosi stiano dietro a questo progetto eversivo?’ qualcuno dirà.

Eppure non si tratta di complottismo: a confermare queste tesi sarà Roberto Scarpinato, ex procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo audito il 16 giugno 2021 dalla ‘Commissione d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia’. Secondo Scarpinato: “Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 si tennero in Italia e in Sicilia in contemporanea riunioni tra i massimi vertici di Cosa nostra e ‘Ndrangheta per discutere di un progetto di destabilizzazione del Paese”. E poi il chiaro riferimento alla Lega Nord e a Gelli: “Bisognava trovare un nuovo soggetto politico, una Lega meridionale che, collegandosi alla Lega Nord, avrebbe acquisito una forza politica in grado di realizzare un’Italia federale con tre aree, realizzando una sorta di secessione (…).

L’architettura politica del progetto era affidata alla massoneria di Gelli e all’ideologo della Lega Gianfranco Miglio”. E poi la stoccata a Forza Italia: “In questo progetto doveva entrare Sicilia Libera e Forza Italia. Nacquero tanti movimenti indipendentisti che dovevano fondersi in una unica Lega sotto la regia di Licio Gelli”. E il coinvolgimento di personaggi ‘particolari’ come Stefano Delle Chiaie e mafiosi come Vito Ciancimino. Ma non solo: Scarpinato tira in ballo anche un certo ruolo “esercitato da apparati dei Servizi legati a Gladio”, una grande “strategia per realizzare la secessione in Italia”.

Una trama scioccante, che riscrive parte della storia contemporanea d’Italia e che dà una spiegazione dei reali istinti secessionisti della Lega, ai danni del Sud, che sarebbe dovuto divenire una colonia in mano alle mafie. Ancor più grave di queste dichiarazioni è il silenzio mediatico che ha avvolto quest’audizione parlamentare, ignorata dalle maggiori testate nazionali. I quesiti sono molteplici: com’è possibile che certi politici ancora incassino consensi, dominando la scena politica attuale? Com’è possibile che i meridionali sostengano ancora certi partiti che li volevano abbandonare tra le braccia dei mafiosi? E soprattutto: com’è possibile che non si sia fatta piena chiarezza su questo disegno eversivo? Com’è possibile che con tutte queste premesse, non ci siano stati risvolti giudiziari concreti?

Nel mese di luglio 2021 arriva la probabile spiegazione: Scarpinato (che ha prestato servizio fino agli inizi del 2022) decide di levarsi qualche sassolino dalla scarpa, rilasciando alla stampa alcune dichiarazioni fortissime. Così riferisce che nel “complesso piano politico che si celava dietro le stragi del 1992 e del 1993 alla mafia era stato delegato il compito di svolgere il ruolo di braccio armato”. Ma lui, il suo pool e i magistrati meridionali non stettero con le mani in mano. “Nel 1996 – spiega – scrissi una prima bozza di 600 pagine che sottoposi all’allora procuratore Caselli, era il progetto di indagine. Il dossier si intitolava ‘il sistema criminale alla conquista dello Stato’. Lo avevo elaborato proprio prendendo spunto dall’informativa della Dia e acquisendo atti da tante procure”.

Così Scarpinato chiarisce che da Aosta si era fatto trasmettere gli atti del procedimento ‘Phoney money, da cui trasse “le prove sui rapporti tra la Lega nord e la Lega sud, il coinvolgimento di soggetti americani e il ruolo dell’ideologo della Lega Gianfranco Miglio”, mentre da Trapani si fece “trasmettere il fascicolo su Gladio” e da Reggio Calabria il fascicolo delle indagini sulla massoneria iniziato dal procuratore Cordova”. Così finirono al centro dell’inchiesta “Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie ed altri tredici indagati, tra cui anche personaggi indicati come appartenenti a Gladio, per il reato di associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico. Inchiesta durata diversi anni”.

Come reagì la politica? Remò contro le indagini e la Direzione Investigativa Antimafia. Addirittura l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga (a capo di Gladio, secondo Gelli) criticò la Dia, “arrivando a chiederne lo scioglimento”. Che fine fecero gli atti del procedimento? Il rapporto fu inviato a quattro procure, ma mai utilizzato nelle decine di inchieste”. Spiega sempre Scarpinato nell’estate del 2021: “Dopo la scadenza dei termini l’allora procuratore Piero Grasso sollecitò più volte la richiesta di archiviazione promettendo che avremmo riaperto altri filoni e che avremmo potuto partecipare alle riunioni alla Direzione nazionale antimafia sulle stragi. Ma nessuna di queste promesse fu mantenuta”.

Il 16 marzo 2013 Piero Grasso (ex Leu) fu eletto presidente del Senato e, temporaneamente nel 2015 Presidente supplente della Repubblica Italiana (con le dimissioni di Giorgio Napolitano). Le dichiarazioni rilasciate da Scarpinato nell’estate del 2021, ormai prossimo al pensionamento, sono state riprese solo da qualche organo di stampa locale della Sicilia.

Che fine ha fatto il progetto secessionista della Lega Nord? Congelato in attesa di tempi più propizi. Arrivati a un certo punto, Bossi prima e Salvini poi, si resero conto che non poteva funzionare, non subito almeno. Dunque mutò strategia e si decise di passare per una fase intermedia: il federalismo in salsa leghista (cui dedicheremo un intero capitolo), l’anticamera della secessione. Attenzione, facciamo subito chiarezza: il federalismo, inteso come la concessione di ampie autonomie ai territori statali (all’interno di un perimetro unitario), è un processo interessante verso cui potrebbe convergere il nostro Paese.

L’Italia è un melting pot di culture, lingue e popoli: una maggiore autonomia regionale, sulla falsariga dei länder tedeschi, potrebbe portare dei giovamenti allo Stivale. Il problema è che l’autonomia impostata dalla Lega danneggerebbe enormemente il Mezzogiorno. E non tanto perché acutizzerebbe sin da subito il gap Nord-Sud, ma proprio perché il progetto finale è la spaccatura del Paese.

Non è complottismo: il progetto a due fasi (prima il federalismo, poi la secessione) fu spiegato minuziosamente dal collaboratore di giustizia Tullio Cannella Pubblici Ministeri di Palermo, Firenze e Caltanissetta il 23 luglio 1997: “Ero stato notiziato dell’esistenza di trattative fra Bossi e Berlusconi per un apparentamento elettorale e per un futuro accordo di governo che prevedeva, fra l’altro, il federalismo tra gli obiettivi primari da perseguire. Un esponente della Lega Nord mi aveva riferito che un parlamentare leghista, questore del Senato, aveva confermato che il futuro movimento, che avrebbe poi preso il nome di ‘Forza Italia’, aveva sposato in pieno la tesi federalista”.

Infine, Cannella evidenziò che il federalismo fosse “un primo obiettivo immediato di non scarsa rilevanza nell’ambito del nostro progetto separatista”. Addirittura, anni dopo, lo stesso Miglio rivelò in un’intervista che trattò personalmente e segretamente con Andreotti un appoggio della Lega Nord alla sua candidatura alla Presidenza della Repubblica in cambio di una politica favorevole al progetto federalista. E, in caso di secessione, chi sarebbe stato il leader maximo di uno Stato Meridionale gestito dalla mafia? Alle soglie del 2000 si sbilanciò in un’intervista una vecchia conoscenza di Silvio Berlusconi, Muʿammar Gheddafi: “I siciliani hanno origini arabe (…) al Nord c’è voglia di secessione e avanzano idee di autonomia che si avvicinano a quelle nostre. Chissà che un giorno, magari nel 2000, mi ritroverete vostro leader”. La giusta ciliegina sulla torta. Quindi ricapitolando: stando a numerose dichiarazioni di pentiti e alle indagini della magistratura, un progetto che vedeva la regia di Stati esteri, Cosa nostra, Licio Gelli, Lega Nord (e con l’assist finale di Gheddafi) avrebbe potuto spaccare l’Italia, consegnare il Sud alle mafie e renderlo un protettorato della Libia.

Ora, a distanza di anni, la forma è cambiata ma la sostanza rimane. L’Italia è finita.

Condirettore CentroSud24

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui