Autonomia differenziata e divari territoriali

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Anche un mediocre studente di economia comprenderebbe agevolmente il fatto che, per crescere, un Paese ha bisogno e deve far leva soprattutto sulle sue aree più deboli che, in quanto tali, hanno maggiori margini di innalzare i livelli di benessere per i cittadini.

Del resto, la Germania, quando dopo la caduta del Muro di Berlino ha attraversato la difficile fase della riunificazione, è partita insistendo proprio sullo sviluppo dell’Est, più arretrato, piuttosto che dell’Ovest, che poi ha finito col trainare l’intero paese. Dunque, mentre la Germania è riuscita nella storica impresa di ridurre (in circa 10 anni) i divari interni fra la parte ovest e la parte est del Paese, l’Italia li ha visti quasi costantemente aumentare, a partire dalla sua unificazione.

Dovremmo, invece, fare allo stesso modo, puntando proprio sul nostro Mezzogiorno, che ha ampi margini di crescita (rispetto ad un Nord oramai saturo), per farne la locomotiva del Paese.

Il progetto dell’autonomia differenziata contemplato dal disegno di legge Carlderoli, approvato dal Senato il 23 gennaio scorso e ora all’esame della Camera, sembra procedere invece in senso inverso, non volendo vedere la realtà, che consiglierebbe di puntare proprio sulle aree più deboli, che hanno enormi potenzialità da mettere in moto e sfruttare per una crescita comune ed equilibrata.

Il Mezzogiorno come locomotiva del Paese e dell’Europa

Al contrario del canto ingannevole delle sirene dell’autonomia differenziata, bisognerebbe ascoltare la voce del Mezzogiorno che può rappresentare  l’unica vera locomotiva del Paese e dell’Europa stessa.

Perché si comprenda meglio la questione  dell’autonomia differenziata,  tema oggi  delicato e divisivo del dibattito politico,  occorre  partire  dalle origini e cause dei divari territoriali  che ancora oggi si registrano nel Paese, a distanza di ben 163 anni dall’Unità d’Italia.

Sviluppo e sottosviluppo costituiscono un dualismo, perenne e ancora irrisolto, in molte macro aree del modo che, però, la globalizzazione ha reso sempre più palese, perché direttamente ed immediatamente visibile e percepibile, rendendo di conseguenza la povertà e i profondi divari socioeconomici  sempre più inaccettabili e fonte di conflitti e forzate migrazioni di massa.

Anche il nostro Paese, sebbene non con queste disparità estreme, sin dalla proclamazione dell’Unità e fino ad oggi, ha visto permanere rilevanti squilibri e divari socio economici tra il Nord e il Sud. La questione meridionale, infatti, ancora irrisolta dopo oltre 163 anni di storia, rimane lì sullo sfondo a ricordarcelo; anzi gli squilibri, col tempo, si sono via via aggravati, benché sempre meno compresi dalla parte più ricca del Paese.

La questione meridionale può essere analizzata anche da una prospettiva diversa, come nel rapporto tra le diseguaglianze fra il Centro e le Periferie.

L’esperienza degli ultimi decenni ci insegna che la contrazione della spesa pubblica che si è registrata in questi anni nel Mezzogiorno  ha ridotto, piuttosto che accrescere, l’efficienza.

Anche la lettura politica che si fa del fenomeno  ha preso negli ultimi anni un diverso indirizzo, aprendosi a prospettive nuove che hanno cercato , a partire dal 2001 con la riforma del titolo V° della Costituzione, di affrontarla, rafforzando le autonomie locali e, segnatamente, quelle regionali.

Con il trasferimento delle funzioni, nei termini prospettati dalla legge sull’autonomia differenziata, la sovranità dello Stato sarebbe progressivamente sostituita, di fatto, da quella delle Regioni; si avrebbero delle Regioni-Stato entro gli stessi confini nazionali, con la possibilità per gli ambiti territoriali più omogenei di creare delle macro-regioni che determinerebbero una rapida frammentazione e disgregazione del Paese e della sua comunità.

La nascita di una macro Regione: il grande Nord

Il passo successivo delle Regioni-Stato, create sin da subito con la procedura dell’art.4, 2 comma del ddl Calderoli, sarebbe quello delineato dalla stessa Costituzione all’art.117 , 8 comma che,  così recitando: ”La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni”, aprirà, rapidamente e legittimamente, la strada ad intese con altre Regioni, con semplici leggi regionali senza l’intervento dello Stato, per realizzare organi comuni, come macro-regioni.

In questi termini, sarà allora agevole e conveniente istituire  ambiti più vasti, costituiti da più regioni contermini,  caratterizzate da omogeneità economica e sociale, e, quindi, la concreta possibilità di una grande macro- regione del Nord (che qualcuno ancora oggi chiama il Grande Nord) con un nuovo modello di sviluppo industriale, non più articolato sulle linee del vecchio triangolo Milano/Torino /Genova, ma su quelle di un’area più vasta (forse un quadrilatero o un pentagono, che si spingerebbe ad est, fino a Tieste  e un po’ più a sud, forse fino a Firenze).

Evidentemente, su un fronte diverso nascerebbero di conseguenza ulteriori aggregazioni tra le altre Regioni (forse anche una macro-regione del Sud), in contrapposizione alla/e prima/e per la tutela dei propri interessi che vedrebbero sempre più pregiudicati.

A questo punto, si sgretolerà definitivamente quello che rimane dell’originaria unità del Paese.

In una situazione di questo tipo, alcun presidenzialismo o premierato sarebbe più in grado di salvare un Paese, diviso e disgregato, sul piano territoriale, economico e sociale.

Tale prospettiva dal punto di vista strettamente economico e geopolitico, non pare- peraltro – di alcuna utilità, neppure per le regioni più ricche, atteso che, già da molti anni, nel mondo prevalgono i grandi sistemi economici, rappresentati dai  grandi players che stabiliscono le regole del gioco, lo conducono ed  impongono di fatto condizioni di produzione, consumi, stili di vita e finanche assetti politici ed istituzionali.  Si pensi come già l’Unione Europea, con i suoi 27 Stati-membri – abbia difficoltà ad interagire  efficacemente sugli scenari internazionali  con colossi, come gli stati Uniti, la Cina, la Russia, l’India. La stessa Italia ha difficoltà a farlo in Europa e nel mondo; per cui la prospettiva che, grazie all’autonomia differenziata, qualche macro-regione italiana si possa agganciare e stare alla pari con i grandi players mondiali, è davvero surreale.

Le sperequazioni territoriali

Tornando al nostro Paese, l’esperienza della riforma del 2001  del Titolo V° della Costituzione ci avrebbe dovuto insegnare che, un federalismo non governato in maniera appropriata, può determinare danni importanti, con incrementi sempre meno sostenibili della spesa pubblica, come del resto avvenuto negli ultimi vent’anni in Italia.

In questi anni, infatti, abbiamo sperimentato la devoluzione alle regioni di alcune materie, senza che poi i risultati, in termini di migliori servizi per i cittadini, ci siano effettivamente stati. Allora bisogna uscire dalla  contrapposizione tra Nord e Sud e guardare agli interessi dell’Italia secondo una strategia seria e lungimirante.

Con il ddl Calderoli si è giunti fino a voler per questa via, convincere (anche le rappresentanze politico/istituzionali meridionali e le comunità di riferimento) che, concedendo maggiore autonomia alle Regioni (e, quindi, anche a quelle meridionali), sarebbe più facile risolvere tutti gli attuali divari socio/economici presenti nel Paese, prima di tutti quello tra Nord e Sud.

Peccato però, che lo stesso progetto di riforma non preveda espressamente la possibilità di correggere le discrasie ed i gap, che inevitabilmente si determinerebbero, con uno specifico fondo di perequazione straordinaria, con il ruolo di compensare o quantomeno mitigare gli effetti che la maggiore autonomia avrebbe, mettendo – peraltro – in competizione fra loro macro aree regionali.

In effetti, mettere in competizione fra loro territori diversi, per struttura economica, tessuto produttivo e dotazioni infrastrutturali, e non omogenei neppure dal punto di vista territoriale, organizzativo ed amministrativo,  in nome di una maggiore ed auspicata efficienza e ricerca di opportunità autonome, non appare il metodo migliore. 

Sarebbe come far partecipare ad una gara d’atletica (pensiamo alla corsa sui 100 metri), facendoli partire dalla stessa linea di via, un giovane allenato e palestrato e una persona anziana e claudicante.

Non ci sarebbe, evidentemente, gara!

Forse se ne potrebbe parlare, se, però, aiutassimo il secondo atleta (quello più attempato e claudicante) a partire magari 50/60  metri più avanti.

Il gap infrastrutturale

Un simile progetto potrebbe giustificarsi  solo se si partisse da situazione quanto meno omogenee, anche dal punto di vista dei fattori e delle determinanti dello sviluppo.

Per fare qualche esempio concreto, non si può pensare di partire, improvvisamente, con l’autonomia differenziata in Lombardia e in Sicilia, laddove, facendo solo riferimento alle dotazioni infrastrutturali in essere,  nella prima esistono reti autostradali e ferroviarie in alta velocità, interporti, aeroporti nel raggio di 50 km o anche meno, mentre nella seconda (in Sicilia) non esiste affatto una rete di corridoi ferroviari in alta velocità,  manca il ponte sullo Stretto e per collegarla alla penisola ci sono ancora solo i traghetti,  e ancora  dove per  il collegamento in treno da Ragusa a Trapani, per  coprire una distanza di circa 320 km, occorrono ben 14 ore di viaggio.

Ennesimo caso, di come risulti ancora arretrato il sistema dei collegamenti nel Mezzogiorno, è quello di questi giorni lungo la direttrice appenninica tirreno-adriatica. E’ bastata una piccola frana, determinatasi  nel comune di Ariano Irpino (AV), tra Campania e Puglia, per interrompere la linea  ferroviaria Napoli-Benevento-Foggia-Bari,  con fermata obbligatoria a Benevento (con tempi di sistemazione ad oggi stimati in qualche mese). Al momento, quindi, non vi è più alcun collegamento ferroviario, già in precedenza precario,  tra le due principali città del Sud peninsulare e, da qui,  verso la direttrice tirrenica Nord – Sud.  Si pensi, inoltre, che si percorre oggi ancora la stessa linea, costruita tra il 1865 e il 1869, ma con maggiori tempi di percorrenza.

Che dire! Davvero assurdo!

Il Rapporto SVIMEZ 2023  evidenzia un quadro delle criticità infrastrutturali italiane caratterizzate da sotto-dotazione al Sud e da saturazione al Nord. Grande ritardo emerge in particolare per quanto riguarda la rete ferroviaria del Sud: solo 181 km di alta velocità (12,3% del totale), presente solo in Campania; gap enorme per elettrificazione della rete: 58,2% al Sud (come nel 2021, Sardegna unicamente a trazione diesel), 80% al Centro-Nord; bassa quota del doppio binario (31,7% contro il 53,4% al Centro-Nord).

La dotazione di infrastrutture stradali del Sud è molto inferiore per estensione della rete autostradale (1,87 km per 100 km2 contro 3,29 al Nord e 2,23 al Centro): in Sardegna nessun km di autostrada, marginali in Basilicata.

Allora, se davvero si vuole far crescere l’intero Paese, occorrerà dapprima correggere gli attuali e gravi squilibri economici esistenti e disporre delle medesime  dotazioni infrastrutturali e solo  poi pensare a progetti che offrano alle Regioni che ne facciano richiesta maggiore autonomia e la spinta a mettersi in competizione fra loro.

Rimane così la conflittualità, non solo tra le diverse posizioni politiche attualmente in campo, ma anche tra i territori, e, quindi, la pace,  la stabilità e la coesione sociale appaiano sempre più lontane.

Le esperienze europee più recenti

Le esperienze più recenti degli altri Paesi in Europa vanno in senso assolutamente opposto, rispetto alle spinte autonomistiche che vengono dai loro territori interni.

Paesi che hanno una tradizione autonomista vera, come la Germania, stanno ripensando all’utilità di questo modello organizzativo, valutando la possibilità di riportare al centro alcune materie e funzioni, perché diventate assolutamente strategiche per il Paese. Effettivamente ci sono alcuni territori che hanno una certa storia e tradizione autonomista, che legittimamente pensano che con l’autonomia differenziata starebbero meglio perché avrebbero maggiore benessere; tuttavia, come in precedenza osservato, non è più così,  in un mondo sempre più globalizzato come quello in cui viviamo.

C’è poi il caso recente della Catalogna, in Spagna, che dovrebbe insegnarci qualcosa. All’atto dell’annuncio da parte della Catalogna del progetto di una maggiore autonomia rispetto allo Stato centrale, l’effetto immediato è stato la fuga in massa di tutte le più grandi società e gruppi di imprese ed i più grandi investitori verso Madrid, dimostrando così di non desiderare barriere e separazioni di sorta, intendendo rimanere e competere su un mercato più grande e globale.

La ricerca di un approccio diverso

I modelli attuali di economia politica utilizzati per governare i mercati  e i processi di crescita nazionali  sono, sostanzialmente,   caratterizzati dal fatto di prevedere una bassa coesione sociale  ed un alta competitività tra le aree.

In un modello dove c’è forte competitività tra le aree,  che è la logica che sembra sottendere il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata, è evidente che  valga il principio della  giustizia coincidente con l’utile del più forte.

Come ci ricorda l’economista napoletano, Guido Tortorella Esposito (in un saggio pubblicato qualche anno fa sulla rivista “Il Pensiero  economico moderno”), laddove sono presenti meccanismi caratterizzati da alta competitività ci può essere, tutt’al più,  crescita di ricchezza da parte di un’area, che è già forte,  che  usa correttamente  le regole del mercato e, quindi,  si muove rispettando la legge,  ma generando – al contempo – meccanismi speculativi. Vero è che si  muove usando  le regole del mercato,  ma lo fa trasferendo ricchezza dalla parte  meno competitiva a quella più competitiva e, quindi,  nel nostro caso, dal Sud verso il Nord.

Seguendo il ragionamento dell’economista Tortorella Esposito, se  il ddl in esame fosse stato, invece,  concepito  in una logica di riduzione  del grado di competitività fra le aree e di contestuale innalzamento della coesione sociale, a livello nazionale, la valutazione sarebbe probabilmente  diversa  ed anche il giudizio meno severo.

In questa direzione, l’economista napoletano ci ricorda come Gian Domenico Romagnosi (illustre giurista, filosofo ed economista italiano dell’800),  quando  pensava a quale dovesse essere il compito dello Stato,  suggeriva di tenere basso il livello di competitività  tra le aree e, quindi, all’interno del Paese,  in  modo da aumentare la coesione sociale. Se quest’ultima aumenta, si accresce un interesse pubblico,  condiviso come interesse nazionale tra le diverse aree,  e, quindi, il prius dell’azione economica non è più la ricerca dell’utilità di una singola area, bensì dell’intero sistema nazionale, dove la crescita dell’utilità di una singola regione, poniamo  per esempio il Mezzogiorno, genera meccanismi di crescita che possono  fare da  volano anche per le regioni del Nord.

 Non è quindi un problema di modello, ma di approccio.

Se usiamo un approccio competitivo, l’autonomia differenziata produce, ovviamente,  meccanismi di sperequazione; se, invece, scegliamo un approccio di coesione sociale, e la norma viene migliorata per accrescere il meccanismo di coesione,  potrebbe anche diventare  volano non di crescita ma di sviluppo economico ,  dove la crescita inizia a diventare anche fattore di sviluppo e, quindi, di miglioramento della condizione di vita  dei cittadini.

Occorrerebbe evitare di procedere generando ulteriori meccanismi di sperequazione; quindi, il suggerimento al legislatore è quello di mutare approccio, mirando ad accrescere la coesione sociale, piuttosto che la competitività fra le aree, come invece il ddl Calderoli cerca di fare. 

contributo esterno

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