Fabrizio D’Aloia: “Ecco come fare impresa in Italia grazie alle nuove tecnologie”

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Fabrizio D’Aloia

Fare impresa in Italia con un nuovo approccio alla Information Technology e al sistema d’istruzione come volani per lo sviluppo. Lo abbiamo chiesto a Fabrizio D’Aloia, un imprenditore italiano di successo nel settore dell’i.t. e del web.

di Giovanni Barretta

Sulle nuove frontiere dello sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, su ChatGPT, Blockchain e sulle profonde trasformazioni che, in maniera crescente, provocheranno nel nostro stile di vita, abbiamo intervistato l’Ing. Fabrizio D’Aloia, un imprenditore italiano di successo nel settore dell’Information Technology e delle applicazioni per il Web.

Co-fondatore di ArtSquare. io, piattaforma fintech basata su blockchain per la democratizzazione all’arte, Fabrizio D’Aloia, ingegnere elettronico ad indirizzo calcolatori nato a Benevento, formatosi in Italia e specializzatosi in Business Management in Information Technology presso l’Università di New York, fonda negli anni ’80 la People’s Network. L’azienda è uno dei primi e più grandi provider di servizi Internet nel nostro Paese, che da subito ne intravede l’enorme potenzialità e la capillare penetrazione che poi avrebbe avuto in tutti gli aspetti della vita reale. Nel 1996 fonda Microgame S.P.A., un fornitore di servizi di giochi e scommesse con denaro reale, di cui riveste la carica di Presidente e CEO, fino a quando, nel 2013, cede la società a due fondi di private equity USA: TPG Growth e Monitor Clipper Partners a loro volta subentrati al fondo di investimento inglese Cambria. Sotto la sua guida, l’azienda era già cresciuta notevolmente, fino a raggiungere più di 180 brands nel più grande network di poker on line al mondo, oltre 2,5 milioni di utenti attivi, generando più di 2,4 miliardi di euro di ricavi all’anno.

Com’è noto, il 31 marzo 2023 il Garante della Privacy (GPDP) italiano ha richiesto a OpenAI di interrompere il servizio di ChatGPT in Italia per ragioni legate all’adeguatezza dell’informazione resa agli utenti ed alla raccolta e conservazione dei dati personali.

Nella nostra intervista a Fabrizio D’Aloia abbiamo voluto sentire, innanzitutto, il suo punto di vista sul fare impresa in Italia e sulle nuove prospettive dell’Intelligenza Artificiale, anche alla luce del recente intervento del Garante su ChatGPT che, di fatto, ha segnato una battuta d’arresto del servizio. Ciò ha reso vani, peraltro, gli sforzi di alcune imprese del settore che, anche con importanti investimenti, si erano avviate con grande entusiasmo in questa direzione. Peraltro, mentre lo stop a ChatGPT avveniva nel nostro Paese, nel resto d’Europa e, soprattutto, negli Stati Uniti, in Cina e Russia il servizio è proseguito senza interruzioni di sorta; anzi, si perfeziona sempre più, rischiando – secondo gli esperti del settore – di farci accumulare ritardi competitivi non facilmente poi recuperabili.

L’intervista a tutto campo a Fabrizio D’Aloia

Sui temi del fare impresa in Italia e dell’approccio all’Information Technology abbiamo chiesto a Fabrizio D’Aloia un suo parere.

“ChatGPT è semplicemente un esempio di quello che è l’approccio del “sistema Italia” all’innovazione. Tipicamente in Italia è impossibile innovare perché è consentito sviluppare attività soltanto tra quelle consentite dalla norma. Al contrario di quanto avviene nei paesi anglosassoni, dove è consentito tutto quello che non è espressamente vietato.

L’innovazione viene subito colta come un’opportunità in questi paesi, dove il legislatore osserva quello che succede ed interviene solo se necessario, dettando delle regole a cui gli operatori devono adeguarsi in un tempo concordato”.

Se ho capito bene lei risiede all’estero e oramai da tempo intraprende e sviluppa le sue attività solo nei paesi anglosassoni; forse perché non intravede più la possibilità di fare impresa in Italia, soprattutto nel settore dell’Information Technology?

Sono un imprenditore seriale nel settore del digitale; dagli anni ’80 ho fondato più aziende, di cui le ultime due sono state cedute (non a caso) a fondi d’investimento anglosassoni, americani e asiatici.

Ho cambiato pelle circa 10 anni fa; non mi sono occupato più di management d’impresa ma di supporto alle start-up digitali innovative. Sono, quindi, diventato un investitore, un consulente strategico per le start-up digitali innovative, mettendo a disposizione dei giovani imprenditori la mia esperienza, la mia conoscenza della tecnologia e la mia visione futuristica sull’evoluzione del mercato con l’applicazione delle nuove tecnologie.

Il mio baricentro si è spostato in Inghilterra perché, ovviamente, le start-up digitali necessitano di infrastrutture e di un framework normativo, assolutamente flessibile, disposto ad ascoltare, e di un contesto con una grande propensione ad investire perché il sistema normativo fornisce agevolazioni, non solo fiscali, ma anche operative sia agli investitori che agli imprenditori”.

A tal proposito, mi sembra che in Inghilterra, per i neo-imprenditori che intendano investire, esista una sorta di moratoria, della durata di circa due anni, che consente a questi di poter avviare subito l’attività, prima di doversi adeguare al sistema normativo, anche lì evidentemente presente, ma a condizioni e in tempi molto diversi da quelli che conosciamo nel nostro Paese. E’ proprio così Ing. D’Aloia?

“Per le start-up innovative, dove il carattere di innovatività è certificato, ovviamente, dall’imprenditore e da consulenti esterni, da lui individuati, il legislatore dà un tempo per adeguarsi alle normative vigenti perché mette in conto che il giovane imprenditore, impegnato a portare avanti un’impresa innovativa che di per sé ha poche probabilità di insuccesso sul mercato, deve concentrarsi sullo sviluppo dell’idea e non sull’organizzazione formale.

Gli viene concesso, così, un tempo per adeguarsi, in maniera tale che, solo se la sua idea inizia a generare numeri importanti sul mercato, ha un senso adeguarsi alle norme; diversamente è un laboratorio di sperimentazione in cui si concettualizza con un’idea e, visto che si fatica anche a trovare degli investitori, ha poco senso caricarla di costi organizzativi in questa fase del tutto inutili”.

Mi pare di capire che anche Lei, quindi, sia annoverabile tra quei cervelli in fuga dal nostro Paese, già da molti anni, anche se il legame affettivo rimane. Come ci ha riferito prima, oltre a trasferire la propria residenza, Lei ha spostato dall’Italia la quasi totalità dei suoi interessi economici e professionali. E ciò proprio a causa degli ostacoli al fare impresa che lei individua in Italia?

Sono andato via più volte. Una volta sono stato costretto dalla necessità perché nel mezzo del nostro investimento, nell’innovare il mondo del gaming on line, ci siamo visti revocare la nostra concessione sulla base di ricorsi dei competitors che poi si sono dimostrati infondati, ma che, nel frattempo, ci hanno tarpato le ali con una società che intanto si era indebitata per gli investimenti fatti.

Siamo stati così costretti a reiventarci il progetto su base internazionale in Inghilterra, dove siamo stati accolti e supportati immediatamente. Sono rientrato in Italia quando, finalmente, il quadro normativo si è adeguato e siamo diventai leader di mercato. Dopo aver ceduto l’ultima azienda a due fondi d’investimento americani, sono spontaneamente ritornato in Inghilterra, che ormai conoscevo bene, sia per l’istruzione dei miei figli, che per vestire i panni dell’investitore, diventando partner di un acceleratore di start-up innovative a Londra.

Attualmente selezioniamo start-up innovative, ne guardiamo più di 800 all’anno, ne selezioniamo circa il 2% per sottoporle ad un processo di accelerazione e di fundraising per crescere sul mercato.

I numeri parlano chiaro: più del 80% delle start-up digitali innovative italiane si trasferiscono a Londra per sviluppare il progetto e fare fundraising, un’attività continua per una start-up, che consiste nel cercare i fondi necessari per il proprio progetto, fintantoché l’impresa non è capace di muoversi sulle proprie gambe.

Si tratta di un’attività impegnativa, dispendiosa, e che in Italia è veramente ridotta al lumicino. L’attività di investimento nelle start-up innovative è, infatti, poco sviluppata e supportata in Italia”.

Se non ricordo male negli anni ’90 Lei fu il fondatore di People’s Network, uno dei primi service provider in Italia di servizi Internet ?

“Si, ho cavalcato tutti gli sviluppi della rivoluzione digitale dagli anni ’80  in poi, fondando  prima una software house ancora esistente, la Soft.Lab, che si occupava di grafica 3D, quando i personal computer avevano ancora i monitor a fosfori verdi; successivamente l’ho ceduta per esplorare con People’s Network il mondo Internet che era agli arbori, quando il sistema operativo Windows non ancora conosceva la parola Internet ed il protocollo TCP/IP. Siamo stati così costretti ad inventarci un kit per aggiornare Windows e consentirgli di connettersi ad Internet.

L’ho ceduta ad un operatore di telefonia e, successivamente, sono entrato nel mondo del gaming online per soldi veri, definendo, di fatto, le regole per il mercato e poi ho sviluppato in Italia il concetto di moneta elettronica con Mobilmat, terzo istituto ad essere autorizzato da banca d’Italia. Mi sono, quindi, sempre occupato di innovazione. Ovviamente, mi sono sempre mosso su un’area di scarso confort dal punto di vista normativo in Italia, perché tutto quello che facevo non era ancora codificato.

Mi scontravo continuamente con tutti (dalle banche alle Camere di Commercio, dal notaio ai revisori contabili ed i vari professionisti) che non riuscivano a comprendere appieno che attività effettivamente svolgevo.

E’ stato, quindi, un percorso sempre ad ostacoli ed in salita, con un grande dispendio di energie, che avrebbero potuto essere canalizzate nello sviluppo del business, ottenendo migliori risultati, non solo per impresa ma anche, ovviamente, per tutti gli stakeholders”.

Ed oggi, Ingegnere D’Aloia, di quella banca, Mobilmat, di cui è stato Presidente, che ne è stato? La segue e sostiene ancora?

“No, sono stato costretto a liquidare Mobilmat.

Anche lì non c’erano ancora i presupposti per potersi muovere in Italia nel mondo della moneta elettronica, soprattutto quello emergente delle criptovalute, basate su tecnologie blockchain, per cui progetti analoghi sono in fase di sviluppo in altre giurisdizioni, come Malta, molto più propense all’innovazione e a supportare gli imprenditori che visionari che vengono visti come innovatori e non come potenziali problemi per il resto dell’economia tradizionale”.

Ci può spiegare con parole semplici in che consiste la tecnologia blockchain?

“La blockchain è una tecnologia che consente di effettuare delle transazioni tra due soggetti,  senza che ci sia bisogno di una terza parte per poterle concludere e che sia di fiducia di entrambe le parti.

Questo consente una disintermediazione totale, lo scambio di assets digitali in tempo reale ed in data certa, senza che ci sia mai uno stato indefinito, e senza la necessità di un soggetto di fiducia per garantire le parti.

Lo scambio dei due asset della transazione è contemporaneo; viene registrato sul registro pubblico digitale, consultabile da tutti ed immutabile. Quindi possiamo, finalmente, automatizzare tutta una serie di attività che, in un mondo basato sulla sfiducia tra le parti e che ha creato per questo delle istituzioni ad hoc, come ad esempio il Notaio, per garantire entrambe le parti sulla correttezza della transazione, passare ad un mondo basato sulla fiducia nella crittografia per garantire parti distanti e che non si conoscono e che, quindi, tendenzialmente, non si fidano, garantendo entrambe, sulla correttezza della stessa transazione.

In pratica, è il problema del double spending; cioè che la mia casa la posso vendere a più persone contemporaneamente, perché nel frattempo che faccio l’atto con uno ed incasso da questo il prezzo, l’ho già venduta la mattina ad un altro e la sera ad un altro ancora. Con la tecnologia blockchain, invece, questo problema non si pone più”.

 Ma questa tecnologia blockchain è già operativa e disponibile in Italia?

“Blockchain è una tecnologia open source, disponibile liberamente per tutti, in tutto il mondo. Il problema è che per la sua adozione l’Italia è molto indietro, dal punto di vista normativo, per cui sono poche le sue applicazioni, quasi tutte in ambito privato.

Non si è ancora visto nulla in ambito pubblico, in assenza di un quadro normativo ben preciso”.

Se Lei dovesse interloquire adesso con il nostro legislatore, cosa gli consiglierebbe?

“Intanto, bisognerebbe dare una legittimità a questa tecnologia, riconoscerne l’utilizzo e i prodotti che ne derivano, senza bandirli come criminali a prescindere. Chiaramente, questo pesta i piedi a tante categorie, a tante corporations e a tante lobbies, che in Italia sono estremamente forti.

Non è un caso che ChatGPT sia stata bandita per prima in Italia, sulla base di una normativa che invece è la stessa vigente in tutta Europa. Noi siamo i più lenti in tutto. Siamo il Paese dell’illegalità diffusa, dalla Pubblica Amministrazione al privato, con alcune regioni in cui la criminalità organizzata regna sovrana, ma siamo poi invece celeri nel bloccare ChatGPT.

È evidente che ci sono state pressioni da parte di coloro che da ChatGPT possono subire dei problemi “.

Lei, quindi, ritiene che il recente intervento del Garante, che in Italia ha fermato quelle start-up, che stavano iniziando solo da pochi mesi questo percorso di ricerca e sviluppo della tecnologia ChatGPT, effettivamente possa costituire per queste una severa penalizzazione dal punto di vista competitivo?

“Sicuramente questo intervento del Garante ha contribuito a rafforzare l’idea che hanno all’estero dell’Italia come Paese assolutamente inaffidabile per investirvi, dal punto di vista dell’intervento del pubblico sul mercato.

Certamente, quest’intervento non garantisce nessuno, perché questa tecnologia è comunque accessibile dall’Italia con qualche trucco da bambini, per cui le aziende che stanno innovando e sviluppando delle applicazioni su questa tecnologia la stanno continuando ad utilizzare con una semplice VPN, una specie di tunnel che connette direttamente a ChatGPT dal nostro pc, senza passare per gli indirizzi pubblici che in Italia sono stati banditi.

Ma, al di là di questo, così creiamo, sicuramente, diffidenza nell’utilizzatore e nel cittadino comune; lo mettiamo poco a suo agio nell’utilizzo di questa tecnologia che, invece, richiede prova, sperimentazione, metabolizzazione, confidenza. E’ un po’ come l’utilizzo delle carte di credito.

Quando è partito l’e-commerce non è un caso che l’Italia era l’ultimo paese per numero di transazioni; c’era tanto timore sull’utilizzo degli strumenti di  pagamento elettronico, che derivava da una non cultura finanziaria, da una scarsa disponibilità di questi strumenti di pagamento, dall’utilizzo massiccio del contante, che è stato sempre favorito e mai bandito; insomma, scontiamo un retaggio culturale nell’utilizzo della tecnologia che si basa su tutta una serie di fattori, anche culturali ed educativi, in cui l’Italia ha un gap da colmare, che richiederà un lungo drag generazionale, ma soprattutto che richiede a monte un cambio di approccio normativo per poter avvenire.

Ma avverrà lo stesso, sebbene molto lentamente, e che ci posizionerà come fanalino di coda rispetto ad altre nazioni che, invece, accolgono l’innovazione tecnologica con entusiasmo e gestiscono la transizione in maniera flessibile”.

Gli algoritmi a cui fa ricorso l’Intelligenza Artificiale, che oggi sono in grado anche di autoaddestrarsi, probabilmente nel prossimo futuro cambieranno il nostro stile di vita. Secondo lei, Ing. D’Aloia, esistono rischi legati all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale e di  ChatGPT? Se questa materia non verrà, in qualche modo, governata e normata, si pongono – secondo lei – anche problemi di natura etica?

“Assolutamente no. Siamo ben lontani dall’avere un’intelligenza artificiale generale, capace di coprire ogni ambito e di prendere decisioni autonome. Siamo semplicemente all’utilizzo, in maniera più avanzata, delle capacità di elaborazione e memorizzazione di grandi quantità di dati dei moderni computer.

Quello che abbiamo a disposizione oggi è, semplicemente, un assistente personale che è capace di fare in maniera molto veloce ed accurata dei compiti che prima richiedevano ore e ore di lavoro di persone esperte, ossia formate per lunghi periodi; ma non siamo in presenza di una minaccia vera e propria.

I media e chi coloro che ci raccontano questa visione partono da una prospettiva molto fantascientifica dell’intelligenza artificiale, senza approfondire realmente cos’è, come funziona e su che cosa si basa. Francamente, in questa fase considero eccessiva questa preoccupazione.

Piuttosto c’è da seguirne con interesse lo sviluppo, da un punto di vista di come si posizione questa tecnologia sullo scacchiere più complesso dell’economia di una nazione, sull’economia mondiale e, quindi, come interseca i suoi effetti con la politica. Non dobbiamo preoccuparci della tecnologia di per sé, ma degli effetti che ha sull’economia e quindi la società.

È evidente che rappresenta un’evoluzione, anzi rivoluzione, importante; possiamo solo trarne vantaggio, perché ci consente di essere più produttivi e di alzare l’asticella della qualità di quello che produciamo in ogni ambito.

Ovviamente, accadrà come nel passato, con il classico copia e incolla: qualcuno si limitava a fare una ricerca su Google, a fare quindi il copia e incolla di quel che trovava, facendolo suo ed utilizzandolo senza aggiungervi alcun valore.

Era semplicemente uno, che potremmo definire “stupido”, che “produceva” qualcosa “fatto” da qualcun altro. Coloro che finora hanno agito così, continueranno ad esistere anche con ChatGPT e le altre applicazioni di intelligenza artificiale; qualcuno, ad esempio, troverà comodo, anziché mettersi a disegnare un’immagine grafica, pensandoci su, farlo fare all’intelligenza artificiale, presentandola come sua.

Qualcuno più in gamba, invece, può partire da quella base per evolverla, aggiungendo qualcosa di proprio. Le ricerche sono una base per poi sviluppare un’idea. Analogamente, l’intelligenza artificiale è una base per generare delle cose più elaborate. Se ci fermiamo a quello che ci suggerisce l’intelligenza artificiale non aggiungeremo valore come potremmo invece fare con la nostra intelligenza”.

A quelli che dicono che con lo sviluppo delle tecnologie, come ChatGPT , si distruggeranno più posti di lavoro, rispetto a quelli che esse stesse genereranno, cosa risponde?

“Intanto ChatGPT è semplicemente un prodotto che si basa sull’intelligenza artificiale con machine learning e tecniche di perfezionamento, ma ce ne sono tanti altri in arrivo e quindi avremo un’offerta diversificata di tanti prodotti, simili a ChatGPT sul mercato.

Stanno scendendo in campo oltre a Microsoft in partnership con OpenAI, lo sviluppatore di ChatGPT, anche Google, Apple, Meta e altre start-up meno conosciute. Sicuramente, non ci sarà solo ChatGPT che è arrivato prima di altri sul mercato  a valle di un processo di ricerca e sviluppo che è iniziato più di cinquanta anni fa di una tecnologia che, praticamente, distrugge più posti di lavoro di quanti ne crei.

Tutto il progresso dell’umanità, dalla prima rivoluzione industriale in poi, si è sviluppato di pari passo con lo sviluppo della tecnologia. In pratica quest’ultima è stata il grande driver del progresso dell’umanità negli ultimi tre secoli.

Il grande boom demografico a livello mondiale è avvenuto grazie all’innovazione tecnologica. In pratica la tecnologia ha richiesto più forza lavoro e ha permesso di creare le risorse per consentire ad una popolazione in crescita di poter soddisfare i propri bisogni.

Questo sviluppo tecnologico è arrivato ad un culmine nel dopoguerra ed ha invertito la tendenza, per cui quei posti di lavoro, che la tecnologia stessa aveva creato, adesso li sta distruggendo. Facciamo un esempio: l’invenzione della macchina da stampa ha creato l’industria dell’editoria ed il relativo indotto; quindi, ci sono produttori di carta, stampatori, produttori di inchiostro, giornalisti, giornali, edicole, scrittori, libri, librerie. C’è stata tutta un’industria che è cresciuta su quella tecnologia che si è sempre più perfezionata. Ad un certo punto, però, si è invertita la tendenza.

Con l’invenzione dell’editoria digitale il giornale non si stampa più, non serve più la carta, non serve più chi lo distribuisce e chi lo vende; semplicemente mi arriva direttamente sul mio computer o cellulare; restano ancore in campo i giornalisti, ma non sono più neanche professionisti, perché il lavoro oramai viene distribuito anche su base volontaria; nascono testate libere senza controllo, l’informazione si diversifica.

Abbiamo, sicuramente, distrutto tanti posti di lavoro, ne abbiamo creati, certamente, degli altri, ma c’è stato un grande cambiamento. Sicuramente alcuni posti di lavoro sono andati perduti per sempre ma se ne sono creati degli altri.

Il bilancio, ovviamente, è negativo per l’occupazione. Questo fenomeno era iniziato già con l’automazione delle prime catene di montaggio; poi si è esteso nel terziario con i personal computer e le reti e, infine, si è evoluto fino ad oggi, dove con l’intelligenza artificiale possiamo fare a meno anche di figure professionali che si pensava fossero inattaccabili, come chi fornisce assistenza telefonica da un call center.

E’ evidente che le risposte che fornisce l’addetto del call center, in base alla formazione che ha ricevuto, possono essere oggi agevolmente sviluppate con un chatbot, come ChatGPT, che parla tutte le lingue, comprende quello che gli dici e ti fornisce una risposta, elaborata in maniera adeguata da milioni di documenti sui quali è stato addestrato.

Chiaramente ChatGPT ha una capacità di memorizzazione ed elaborazione delle informazioni di gran lunga superiore a qualunque essere umano. Quindi, è capace di fornire un servizio a chi gli pone una domanda, migliore di quello dell’operatore del call center, seppur bravo quanto vuoi”.

Mi pare di capire allora che incombe su di noi il rischio concreto di una nuova ribellione luddista. Anche se, a ben guardare, la tecnologia, pur distruggendo alcuni posti di lavoro, ne crea di nuovi, con nuovi ambiti e prospettive in cui l’uomo potrà impegnarsi, rispondendo a bisogni non avvertiti prima. Ho capito bene Ing. D’Aloia? Sarà così?

“Si, siamo su una traiettoria che sta portando l’umanità dal bisogno di lavorare, per accaparrarsi le risorse di base per potersi garantire il sostentamento ed il prosieguo della specie, ad una nuova prospettiva.

Dalla necessita di lavorare, alla scelta di lavorare. Prima la capacità di sopravvivere passava attraverso la capacità di procurarsi le risorse di base; l’uomo ha da sempre cercato di creare gli strumenti per potersi garantire tutto questo facendo leva sull’immaginazione, la creatività e quindi la ricerca scientifico e lo sviluppo tecnologico. C’è stato un primo cambiamento rivoluzionario quando l’uomo è passato dall’essere un cacciatore e un raccoglitore, quindi nomade, ad essere stanziale, imparando a coltivare la terra ed allevare gli animali.

Questo grande cambiamento ha portato allo sviluppo della civiltà attuale, basata sulla proprietà privata, sul possesso esclusivo di alcune risorse ed a mutamenti sociali importanti.

Questa traiettoria è continuata e continua ancora oggi sull’onda lunga dello sviluppo tecnologico e, conseguentemente, anche le condizioni lavorative ed il mondo del lavoro stanno evolvendo rapidamente. Quindi, dall’uomo impegnato h24 a proteggersi e a procurarsi le risorse essenziali per sopravvivere, siamo passati all’uomo che lavora oggi solo 8 ore al giorno, che è impegnato nel soddisfare anche i bisogni dello spirito, che ha sviluppato le arti, che ha la capacità di relazionarsi su bisogni non necessariamente legati alla sussistenza.

E questa traiettoria è ben precisa; mentre prima si lavorava anche fino a 16 ore al giorno, oggi si lavora per 8 ore, in alcuni paesi per 40 ore alla settimana, in altri per 36 ore, in altri per 5 giorni a settimana e in altri ancora già per 4.

E’ evidente che ogni epoca ha ritenuto congruo il numero di ore di lavoro settimanali necessarie a procurarsi economicamente quanto necessario per vivere secondo degli standard sociali che si erano dati. Gli standard lavorativi di oggi sono adeguati alla nostra epoca e forse non lo sono neppure più; già si discute, infatti, di diminuire ulteriormente queste ore lavorative.

E’ chiaro che, man mano che aumenta la disoccupazione, aumenta quest’esigenza. In pratica, la disoccupazione che abbiamo attualmente non è contingente, né temporanea, legata al covid, piuttosto che alla guerra in Ucraina o alla crisi economica dei mutui subprime del 2008, ma è invece strutturale. Noi avremo sempre più persone inoccupate e avremo una riduzione progressiva delle ore complessive lavorate, perché tutto il resto lo farà sempre più per noi la tecnologia.

E allora bisogna iniziare a capire che si arriverà ad un punto in cui la tecnologia lavorerà per noi e ci procurerà quello che è necessario per vivere. Quindi, politicamente, bisogna arrivare ad una logica secondo cui non bisogna più investire nel riqualificare i lavoratori o creare posti di lavoro effimeri, dal nulla o dove non servono; occorre accelerare questo processo di disoccupazione e fornire alle persone oltre agli altri servizi sociali anche i mezzi economici di base per poter vivere dignitosamente.

Così insieme all’istruzione, all’assistenza sanitaria, alla sicurezza, dovremmo scrivere anche un importo mensile per fare la spesa, il cosiddetto reddito universale di base o Universal Basic Income. Concentriamoci così olio sulle attività lavorative ancora necessarie, che devono essere quelle che fanno davvero progredire l’umanità, non quelle che le consentono solo di sopravvivere. A quelle ormai ci pensano i sistemi.

Noi dovremmo impegnarci, laddove ci sono le capacità, nel far progredire la conoscenza, nel far avanzare l’umanità, per consentirci ancora di migliorare, come ci garantisce la tecnologia, le ns condizioni di vita.

Ovviamente, tutto ciò in una logica di rispetto dell’ambiente e di utilizzo sostenibile di risorse rinnovabili. Andiamo quindi verso un processo di decrescita virtuoso e controllato, perché assorbire meno risorse, automatizzando, è un vantaggio per tutto il sistema terra”.

Quindi, Ing. D’Aloia lei propende per un processo di DECRESCITA FELICE come qualcuno sussurra da qualche tempo?

“Ci deve essere un soft landing, un atterraggio morbido. I numeri non possono crescere all’infinito, come se fossero sempre su una rampa di lancio.

Necessariamente bisogna tendere verso un livello energetico più basso e quindi più stabile. Il sistema per poter progredire deve attestarsi su livelli di esigenza energetica inferiori a quelli attuali. La tecnologia ci aiuterà a farlo se noi non la ostacoliamo.

L’intervento del Garante, piuttosto che l’approccio di alcuni politici, è provare a mettersi davanti ad un’onda per fermarla: non puoi arginare un’onda che arriva, puoi prendere solo una tavola da surf e cercare di cavalcarla e capire dove sta andando, per trarre dei vantaggi da sfruttare.

Dobbiamo comprendere che se non riusciamo ad avere ben chiaro, in chiave storica, da dove proveniamo e su che traiettoria siamo, non riusciremo nemmeno a capire come atterrare senza farci male.

Questa è una visione che manca, a tutti i livelli, perché richiede un cambiamento davvero drastico, che è difficile da far digerire ed è complesso da imporre; però, è un qualcosa a cui, prima o poi, arriveremo”.

Quindi, Lei vede la decrescita felice come un processo oramai ineluttabile, come qualcuno in politica, generalmente a sinistra, pensa da qualche anno?

“Paradossalmente è molto più di destra pensare di erogare il reddito universale di base a tutti, dalla nascita o dalla maggiore età, per poi aggiungere un ulteriore quota di reddito per attività lavorative veramente necessarie, non ancora automatizzabili, piuttosto che cercare di proteggere posti di lavoro non difendibili e di fatto estinti”.

Se lei ritornasse in Italia in pianta stabile e le fosse offerto un ruolo di governo, cosa farebbe concretamente e subito per questo Paese che dice di vedere in forte ritardo culturale e di sviluppo?

“Sul piano economico andrei a liberalizzare l’attività d’impresa in maniera importante, togliendo tutta una serie di vincoli e ostacoli che le impediscono di operare con serenità, inclusa una grande ingerenza della magistratura.

In più, andrei a rafforzare fortemente l’azione formativa. Bisogna investire, necessariamente, sulla formazione. Lo rileviamo anche noi, dai giovani che ci sottopongono idee di impresa, che manca proprio la cultura economica, anche quella di base: escono dalla scuola a 18 anni e non hanno nessuna formazione finanziaria ed economica.

E questo credo non sia affatto casuale, ma frutto di un disegno politico ben preciso, per fa sì che le persone non sapessero gestire il proprio denaro, affinché potessero farlo le banche per conto loro. Al massimo si insegna a risparmiare, nella logica in cui tu possa averne bisogno in un momento di difficoltà.

Ma non si insegna mai ad investire. Ci fanno credere che questa è una cosa che è destinata solo a chi è capace di farlo, ma non è così! La scuola tende a formare lavoratori in un momento in cui il lavoro tende a diminuire.

Siamo al paradosso! La scuola dovrebbe formare imprenditori che portano avanti idee nuove e sviluppano progetti innovativi. Quindi, la scuola dovrebbe essere un talent scout, approcciarsi in una logica molto più individuale per capire il potenziale di ognuno, consentirgli di svilupparlo appieno, generando posti di lavoro per gli altri o per le macchine portando avanti idee nuove di cui possono beneficiarne tutti. Non devi insegnare a lavorare, ma a creare benessere!”

Queste cose, con particolare riguardo all’istruzione e all’attenzione che qui si ripone nell’educazione finanziaria ed economica, mi pare che nel Regno Unito dove Lei risiede, accada in modo più puntuale. E’ davvero così?

“Lì c’è una grande propensione al rischio. Si inizia a fare impresa già a 14 anni; le scuole hanno degli incubatori che sollecitano i ragazzi a tirare fuori idee e li aiutano a simularle e a realizzarle anche solo a livello embrionale; più che altro per fargli comprendere qual è il meccanismo con cui si porta avanti un’impresa.

C’è una propensione al rischio maggiore, c’è un sistema che ti supporta, sia finanziariamente che normativamente, e nessuno si preoccupa se un’azienda fallisce, perché è normale che ciò possa avvenire.

Del resto, se tiro un rigore posso sbagliare. E questo (il fallimento) non diventa una macchia sociale, com’è in Italia; può succedere. Da quell’esperienza ne nascono altre, le persone si rigenerano, rifioriscono, si reintegrano in nuovi progetti e questo va a vantaggio della comunità”.

A dire il vero, questo diverso approccio alla crisi d’impresa, seppur lentamente, sta avvenendo anche in Italia, per effetto del recepimento qualche anno fa della Direttiva Insolvency che recentemente ha portato all’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi d’Impresa, così riformando la legge fallimentare del 1942. E’ cambiata anche la tradizionale e quasi oltraggiosa denominazione della dichiarazione dell’insolvenza irreversibile dell’impresa; non più come “fallimento” ma  come “liquidazione giudiziale”.

A conclusione della nostra intervista, le chiedo, Ing. D’Aloia, un’ultima considerazione sul tema della scuola e della formazione. Proprio in questi mesi al Senato sono in discussione ben 4 disegni di legge (nn.155, 158, 288 e 421/2022), che mirano, in maniera più o meno convergente, ad introdurre nei programmi scolastici, di ogni ordine e grado, l’insegnamento della EDUCAZIONE FINANZIARIA (accanto o in modo autonomo rispetto a quello di Educazione Civica). C’è da dire, però, che, ancora una volta, si prevede di farlo con la clausola dell’invarianza finanziaria, senza che ciò comporti maggiori oneri per lo Stato. Sarebbe, probabilmente, servito più coraggio da parte dello stesso legislatore, prevedendo la possibilità di investire maggiori risorse nella scuola.

 Non è più possibile, infatti, accettare che i nostri ragazzi e, soprattutto, quelli che frequentano il liceo, non abbiano mai ricevuto alcuna nozione di diritto, economia e di educazione finanziaria, in un modo governato da questi sistemi e dai relativi istituti. Anche questo ci sembra un altro paradosso della scuola italiana, rimasta, per quanto attiene ai programmi scolastici, sostanzialmente a quella concepita nel dopoguerra.

Ci piacerebbe sentire in merito la sua opinione, considerando, peraltro, quello che ci ha appena riferito su questo fronte circa la maggiore adeguatezza, a suo giudizio, del sistema d’istruzione inglese.

“Beh, intanto occorrerebbe estendere l’obbligo scolastico a 18 anni perché è inutile parlare di nuovi moduli formativi su finanza, organizzazione d’impresa, se poi non si obbligano gli studenti ad andare a scuola fino a 18 anni.

D’altronde, consentirgli di lasciare a 13 o 16 anni, significa lasciarli in balia di sé stessi, soprattutto in realtà territoriali complesse, senza la possibilità neppure di lavorare, perché ovviamente non è possibile farlo senza aver ricevuto una adeguata formazione. Si creano, quindi, problematiche di carattere sociale.

L’obbligo scolastico a 18 anni dovrebbe essere il primo passo su cui poi innestare una formazione, soprattutto quella degli ultimi 5 anni, che dovrebbe essere molto mirata all’ingresso del giovane nel mondo del lavoro, che è sempre più basato sull’economia e sul mercato e sempre meno sull’ambito pubblico.

Per cui bisogna che i giovani imparino necessariamente come funziona un’impresa, com’è organizzata, com’è fatta, sulla base di cosa si crea il loro reddito; devono sapere anche loro fare un’impresa, perché oggi tutti sono imprenditori di sé stessi, anche all’interno di un’organizzazione più complessa.

Bisogna capire qual è la propria redditività che giustifichi il salario, per evitare di avere pretese che vanno ben oltre quella che è la propria capacità produttiva. Ci sono una serie di concetti che vanno introdotti in giovane età, affinché possano trovare concreta comprensione e quindi applicazione. Molte controversie nascono proprio da questo gap culturale che c’è spesso tra l’impresa e chi collabora con essa “.

Ing. D’Aloia al termine di quest’intervista abbiamo capito che queste sue idee e convinzioni sono state il paradigma a base del suo successo imprenditoriale. Se anche in Italia qualcosa cambierà come da lei auspicato, confidiamo allora in un suo ritorno come imprenditore sulla scena economica di un Paese che ha urgente bisogno di rinnovarsi.

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