Giorgia Meloni chiede unità sul caso Cospito, ma poi cede alla Lega sulla divisione del Paese. Un comportamento quello della premier, dettato da fini elettorali: la Lega vince sull’autonomia differenziata.
Di Paolo Mandoliti
Se da un lato Giorgia Meloni, con una lunga lettera al Corriere della Sera, chiede unità contro le organizzazioni eversive e a difesa del 41bis, dall’altro lato ha, di fatto, approvando il disegno di legge Calderoli, iniziato il percorso della divisione del Paese in ventuno entità in cui lo stato sarà soltanto il passacarte e il Tesoriere. A tutto il resto ci penseranno le regioni e le due province autonome di Trento e Bolzano.
Un’Italia divisa in 21
Alla vita di 60 milioni di italiani si sostituiranno le vite di 10 milioni di lombardi, 2 milioni di calabresi, e così via. Vite differenziate, sotto il punto di vista dei servizi essenziali (istruzione, trasporto pubblico locale, salute, ecc) a seconda della residenza.
Più complete e più finanziate se si risiede in Lombardia, Veneto o Emilia Romagna, di meno (in media 3000 euro pro-capite di meno) se si risiede in Campania piuttosto che in Calabria.
La cambiale elettorale a favore della Lega in funzione delle regionali lombarde (far fare bella figura agli alleati padani, altrimenti addio palazzo Chigi, Salvini non ci penserebbe un attimo ad un Papeete bis) è pagata. E le belle parole sull’unità del Paese pronunciate a margine del convegno di Poste?
Fuffa. Appunto, parole.
La cambiale elettorale
E la Lega incassa la cambiale (DDL Calderoli) tra gli applausi dell’intero Consiglio dei ministri. Nonostante da più parti si è levato il coro di critiche contro un disegno di legge che certifica la disparità, ormai ventennale, di trattamento finanziario a favore del nord basato sul criterio della spesa storica.
Un criterio che ha sottratto 60 miliardi di euro annui al mezzogiorno (fonte: Conti pubblici Territoriali). Un disegno leghista che dalla secessione è passato all’autonomia differenziata perché nel tempo si sono accorti che la secessione non era conveniente.
Autonomia basata sulla teoria del residuo fiscale.
Le menzogne sul residuo fiscale
La teoria del residuo fiscale, fu introdotta per trovare una giustificazione etica alla necessità di operare trasferimenti di risorse dagli Stati più ricchi a quelli meno ricchi degli Stati Uniti, in quanto Buchanan (premio Nobel per l’economia) asseriva che l’azione pubblica, in base al principio di equità, doveva garantire l’uguaglianza dei residui fiscali dei cittadini di una determinata nazione.
In Italia, la redistribuzione delle risorse è data da tre diverse componenti: la necessità di garantire a tutti i cittadini i medesimi servizi connessi a diritti fondamentali (come salute e istruzione), la messa a punto di iniziative per lo sviluppo economico di aree a basso reddito, nonché l’utilizzo di meccanismi di ripartizione delle risorse basate su criteri storici.
Luca Ricolfi ne “il sacco del Nord” riprende questa teoria, italianizzandola, anzi, leghilizzandola (per giustificare le richieste razziste di autonomia della Lega Nord), trasformandola nella “balla spaziale” che è oggi.
Il residuo fiscale nasce quindi negli anni ‘50 per dimostrare altra roba in altri contesti (Stati Uniti). In Italia, considerato come l’ha posta Ricolfi, non fu mai seriamente presa in considerazione perché non calcolabile con esattezza. Come la pongono Ricolfi e i suoi adepti (compresi Zaia, Fontana, Bonaccini, Cottarelli) è semplicemente ridicola perché si attengono ad una banale somma algebrica di quanto si produce (e si paga di tasse) in una determinata area e quanto si riceve dallo Stato centrale.
Meloni: qualcosa non torna
Uno studioso attento dovrebbe sottolineare alla Meloni che nella somma algebrica alla base del residuo fiscale di cui si fanno promotori con il disegno di legge non sono compresi:
- La spesa per interessi sul debito, che di quest’ultima è componente particolarmente rilevante almeno dal punto di vista quantitativo. Eppure si tratta a tutti gli effetti di una spesa pubblica che, laddove il titolo del debito sia detenuto da un residente vuoi in Lombardia, vuoi in Veneto o in Emilia, va, sia pur indirettamente, a ritornare su quel territorio. Ebbene, considerando dunque la quota di interessi sui Titoli di Stato pagati ai residenti in queste regioni il residuo fiscale – che a questo punto prende il nome di residuo fiscale finanziario – cala sensibilmente (quasi a scomparire).
- Le “rimesse degli emigrati”, cioè di tutti coloro che, residenti nel mezzogiorno, consumano, perché lavorano a tempo determinato (tipo i docenti annuali, e sappiamo quante migliaia sono) al centro-nord. E se a queste aggiungiamo le rimesse degli studenti fuori sede…
- Tutto ciò che viene consumato (inteso come consumi essenziali di energia o gas) al Mezzogiorno, ma che in termini di tasse viene attribuito al nord, perché è al nord che le imprese erogatrici di questi servizi hanno la sede legale (quando non ce l’hanno nei paradisi fiscali), e quindi ENI con sede legale a Milano, per esempio, Edison, sempre sede legale a Milano)
Dalla secessione all’autonomia
E allora, basta una sola considerazione per “sputtanare” questi “teorici del residuo fiscale all’italiana”: fino a poco tempo fa gli stessi parlavano di secessione. Poi si sono accorti che la secessione avrebbe comportato costi insostenibili per le tre regioni paladine oggi dell’autonomia (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna): queste hanno in portafoglio il 66% dei titoli del debito pubblico, a fronte di una quota del PIL del 45%. Ciò comporta un rapporto debito-PIL superiore al 150% (e questo prima della pandemia), provocando una fortissima instabilità finanziaria.
Oltre ad essere considerati peggio dei famigerati paesi “PIGS” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna della prima crisi finanziaria mondiale). Ed in quanto tali con eventuali titoli pubblici spazzatura.
Hanno quindi abbandonato la parola “secessione” sostituendola con “autonomia differenziata” con, alla base, il residuo fiscale (calcolato come conviene a loro), senza tenere conto del massiccio rimborso sotto forma di interessi del debito pubblico, delle “rimesse degli emigrati” e delle tasse pagate a fronte di consumi necessari in mano a società con sede legale al nord.
L’unità meloniana
Un umile consiglio alla Meloni. Dopo le regionali lombarde, dove comunque la Lega avrà la metà dei voti rispetto a Fratelli d’Italia, metta sotto tutela istituzionale i suoi ministri leghisti. Perché oltre all’autonomia differenziata e il disegno di legge che è peggio del Porcellum, un altro ministro leghista (Valditara) ha recentemente proposto stipendi differenziati nella scuola.
Diverse Italie che invece di essere unite saranno profondamente divise con divari enormi, non soltanto tra Nord e Sud, ma anche tra centro e periferia, aree metropolitane e aree interne, grandi città e paesini sempre più spopolati e poveri.
Se questa è l’unità che la Meloni predica, è meglio, per lei, che dia un segnale inequivocabile.
Dalla società civile un primo segnale di dissenso
Intanto, il primo marzo, manifestazione nazionale contro il disegno di legge Calderoli a Roma, in piazza Santi Apostoli.
Manifestazione indetta da Italia del Meridione, aperta a tutte le sigle sindacali, partiti politici, associazioni e cittadini.
Nella diversità dei simboli e delle appartenenze un segnale vero di unità di intenti contro un progetto di divisione del Paese.
Leggi anche: Roberto Benigni e la lezione sulla Costituzione che esalta Sanremo