Il collasso demografico ed economico del Mezzogiorno e delle Aree interne

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Il collasso demografico del Mezzogiorno e, in particolare, delle aree interne era già stato denunciato dall’ultimo (2023) Rapporto SVIMEZ che, qualche mese fa, aveva lanciato l’allarme, evidenziando come in queste aree continui inesorabilmente il fenomeno dello spopolamento, soprattutto da parte di  giovani qualificati. Dal 2002 al 2021 hanno, infatti, lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%) che, al netto dei rientri, ha perso 1,1 milioni di residenti, riguardando in misura crescente le giovani generazioni.

Secondo l’Istituto di ricerca, tra il 2002 e il 2021 il Mezzogiorno ha subìto un deflusso netto di 808 mila under 35, di cui 263 mila laureati e per il 2080 si stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno, pari a poco meno dei due terzi del calo nazionale (calcolato in circa 13 milioni).  In base a queste previsioni, la popolazione del Sud, attualmente pari al 33,8% di quella italiana, si ridurrà ad appena il 25,8% nel 2080. Sempre secondo la SVIMEZ, tra il 2022 e il 2080, il Mezzogiorno dovrebbe perdere il 51% della popolazione più giovane (0–14 anni), pari a 1 milione e 276 mila unità, contro il –19,5% del Centro-Nord (–955 mila). La popolazione in età da lavoro si ridurrà nel Mezzogiorno di oltre la metà (–6,6 milioni), nel Centro-Nord di circa un quarto (–6,3 milioni di unità). Il Mezzogiorno, da area più giovane, com’era fino a qualche tempo fa,  diventerà l’area più vecchia del Paese nel 2080, con un’età media di 51,9 anni rispetto ai 50,2 del Nord e ai 50,8 del Centro.

La definizione di Aree interne

Occorre, però, fare attenzione; non esiste, infatti,  un  solo Mezzogiorno, omogeneo dal punto di vista territoriale e socio-economico; vi sono qui, come nel resto del Paese, aree più fragili ( le Aree interne) che soffrono ancora di più per la marginalità  in cui sono relegate, rispetto ai più ricchi e vitali circuiti regionali, al Centro e alla fascia costiera.

Per “Aree interne” si intendono le porzioni di territorio caratterizzate sia da una significativa distanza dai principali centri di offerta di servizi (sanitari, istruzione, mobilità …), ma anche da una disponibilità elevata di importanti risorse ambientali e culturali. Le Aree interne si suddividono a loro volta in tre categorie, sempre in base alla distanza dal centro: aree intermedie, aree periferiche, e aree ultra-periferiche. Le Aree interne si distribuiscono lungo tutte le direttrici: dal Nord al Sud e dall’Est all’Ovest. La maggior parte sono situate lungo la dorsale appenninica, ma esse si trovano anche lungo la direttrice alpina e nei pressi delle zone costiere.

La prima individuazione delle Aree interne avvenne nel 2013 ad opera dell’Agenzia per la Coesione Territoriale (ministro Fabrizio Barca) che concepì per esse un’apposita strategia per superarne i divari territoriali con quelle più ricche del Centro: la SNAI (Strategia Nazionale delle Aree Interne). A quel tempo, l’ISTAT contava ancora 8.092 Comuni; in base a quei dati, il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e coesione (DPS) ne faceva ricadere ben 4.261 (pari al 52,7%) nell’ambito delle Aree interne del Paese.

Si tratta di territori fragili, distanti dai centri principali di offerta dei servizi essenziali e troppo spesso abbandonati a loro stessi, che però coprono complessivamente il 60% dell’intera superficie del territorio nazionale, il 52,7% dei Comuni ed il 22% della popolazione. L’Italia più “vera” ed anche più autentica, la cui esigenza primaria è quella di potervi ancora risiedere, oppure tornare.

Il rapporto ISTAT del 29 luglio 2024

Nell’ultimo Rapporto ISTAT pubblicato il 29 luglio scorso, che realizza anche un focus speciale sulle aree interne secondo la classificazione operata dalla SNAI (Strategia Nazionale delle Aree Interne),  si conferma il trend demografico negativo. Dall’analisi svolta emerge un declino demografico delle Aree Interne più forte rispetto ai Centri, riproponendo il dualismo tra Nord e Sud e, per l’appunto, tra Centro e Periferia.

Infatti, l’Istituto Nazionale di Statistica ci dice che, in base alla nuova mappatura relativa al ciclo di programmazione 2021-2027, al 1° gennaio 2024, nelle Aree interne risiedono circa 13 milioni e 300mila individui, circa un quarto della popolazione residente in Italia; nei Centri, invece, la popolazione è pari a 45 milioni e 700mila individui. In particolare, risiedono nei Comuni Intermedi 8 milioni di persone (pari al 13,6% del totale dei residenti in Italia), nei Comuni Periferici 4,6 milioni (7,8%) e, infine, nei Comuni Ultraperiferici, i più svantaggiati in termini di accessibilità ai servizi, 700mila individui (1,2%).

Il calo generalizzato che ha interessato la popolazione residente in Italia dal 2014 a oggi (-2,2%), evidenzia l’ISTAT, dopo oltre un decennio di crescita (+5,9% dal 1° gennaio 2002 al 1° gennaio 2014), si presenta in maniera differente nei Comuni delle Aree interne rispetto ai Centri, così come diverso era stato l’aumento negli anni precedenti. Dal 1° gennaio 2002 al 1° gennaio 2014, la variazione nelle Aree interne era stata, infatti, pari a +2,9%, più bassa quindi rispetto a quanto registrato nei Centri (+6,8%). Dal 1° gennaio 2014 al 1° gennaio 2024 la popolazione residente nelle Aree interne è poi diminuita del 5,0% (da 14 milioni a 13 milioni e 300mila individui), mentre quella dei Centri dell’1,4% (da 46 milioni e 300mila a 45 milioni e 700mila).

Il trend negativo investe soprattutto i Comuni Periferici e Ultraperiferici. Se, tra il 2002 e il 2014, la popolazione dei Comuni Periferici ancora evidenziava una crescita dello 0,6%, quella dei Comuni Ultraperiferici aveva già intrapreso un percorso di evidente riduzione, pari al -3,1%. Tra il 2014 e il 2024, poi, il declino demografico risulta generalizzato ad ampia parte del territorio nazionale ma con più evidente forza nelle aree periferiche (-6,3%) e ultraperiferiche (-7,7%).

Lo spopolamento nel Mezzogiorno

Se quello appena citato costituisce il dato nazionale, la situazione appare più grave nel Mezzogiorno che registra tassi di variazione negativi più accentuati. Infatti, la perdita di popolazione nelle Aree interne del Mezzogiorno (-6,3%, -483mila individui) è più intensa rispetto a quella nelle Aree interne di Nord e Centro dove la diminuzione è, rispettivamente, del 2,7% e del 4,3% (oltre – 100mila individui per entrambe). Sempre secondo i dati ISTAT,  nel Mezzogiorno, tra i Comuni in declino, oltre due terzi sono comuni delle Aree interne, mentre nel Centro-nord i comuni interni sono oltre un terzo. Se nel Centro-nord il calo demografico riguarda allo stesso modo i Comuni interni e quelli centrali, nel Mezzogiorno la diminuzione della popolazione è riferita  per lo più Comuni appartenenti alle Aree interne e risulta più forte  rispetto a quanto accade per la stessa tipologia di Comuni nel Centro-nord.

Il gelo delle nascite

Il rapporto ISTAT del 29 luglio scorso evidenzia che nel 2023 il tasso di crescita naturale (pari a -4,8 per mille in Italia) è  stato pari  a -4,5 per mille nei Centri e -5,8 per mille nelle Aree Interne, in diminuzione rispetto al 2002 quando i valori erano pari, rispettivamente, a -0,1 e -1,1 per mille. Nel periodo 2002-2023 i Centri hanno registrato tassi lievemente positivi dal 2004 al 2009, mentre nelle Aree interne sono sempre stati negativi e più consistenti. Considerando l’intero periodo 2002-2023,  il calo delle nascite è stato del 28,5% nei Centri e del 32,7% nelle Aree interne. A partire dal 2008, l’ultimo in cui si sia verificato un aumento del numero dei nati su base nazionale, l’entità del calo non mostra significative differenze tra Aree interne e Centri per quanto nel corso del tempo i valori del tasso di natalità delle due aree si siano avvicinati. Tuttavia, mentre nei Comuni Polo tra il 2008 e il 2023 il calo delle nascite è risultato del 32,7%, in quelli Ultraperiferici si è registrato un decremento del 36,1%. In quest’ultima tipologia di Comuni, infine, il tasso di natalità nel 2023, pari al 5,8 per mille, si presenta tanto sotto il valore medio nazionale (6,4 per mille) quanto sotto quello delle Aree Interne nel complesso (6,3 per mille).

Il processo migratorio dalle Aree interne del Mezzogiorno

Sempre secondo l’ultimo rapporto ISTAT, si registrano in partenza dalle Aree interne del Mezzogiorno quasi la metà dei flussi migratori nazionali. Il flusso migratorio che origina dalle Aree interne e si dirige verso i Centri è stato rilevante negli ultimi 20 anni. Dal 2002 al 2023 si contano poco meno di 3 milioni e mezzo di movimenti che hanno interessato questa traiettoria e circa 3 milioni e 300mila che invece hanno coinvolto movimenti sulla traiettoria inversa, con una perdita complessiva dovuta allo scambio tra aree pari a poco meno di 190mila residenti delle Aree interne, equivalenti alla scomparsa di una città come Taranto. Quasi la metà delle partenze (46,2%) origina da Aree interne del Mezzogiorno, il 34,1% da quelle del Nord e il 19,7% da Aree interne del Centro. Sono i Centri del Nord che accolgono la prevalenza di queste partenze (50,8%), seguiti dai Centri del Mezzogiorno (25,9%) e del Centro Italia (23,3%).

Complessivamente, tre movimenti su cinque riguardano movimenti da Aree interne a Centri all’interno della stessa ripartizione geografica di residenza, ma è significativa la quota di flussi che dalle Aree interne del Mezzogiorno si dirigono verso i Centri del Nord Italia (16,9%), a conferma del fatto che la tradizionale traiettoria dal Mezzogiorno verso il Nord continua a essere una delle principali direttrici della mobilità interna che interessa il Paese.

La (sotto) valutazione del fenomeno

Quello che, però, appare davvero stucchevole è che, mentre l’ISTAT con i numeri rappresenta la gravità del fenomeno demografico in atto, con le sue dinamiche che riguardano principalmente il Mezzogiorno e le sue  Aree interne, l’analisi che viene svolta anche recentemente dal suo stesso Presidente, a differenza della SVIMEZ, non sembra parimenti determinata a denunciare con forza la preoccupante e progressiva desertificazione e la crisi profonda  che investe queste aree, probabilmente sottostimando le conseguenze socio-economiche derivanti dai crescenti flussi migratori dal Sud verso il Nord del Paese, costituiti – peraltro – da giovani generazioni soprattutto qualificate.

Lo stesso pare fare il Governo  in carica che ha scelto di continuare con una visione “strabica” (rispetto all’impostazione finora seguita con l'”Autonomia differenziata”), questa volta a trazione centralista, quella della strategia della SNAI e della ZES Unica Mezzogiorno,   che si è rivelata finora fallimentare; basti vedere quanto accaduto il 22 luglio scorso con il credito d’imposta per la ZES, rideterminato – con provvedimento dell’Agenzia delle Entrate – in misura davvero esigua per le imprese richiedenti,  ed i risultati assai modesti conseguiti dalla programmazione  2014-2020 della SNAI .

La legge per l’Autonomia differenziata, appena entrata in vigore, farà il resto, emarginando sempre più il Mezzogiorno e le sue aree più interne, spaccando il Paese e, quel che resta, della coesione nazionale.

Le prospettive future: le Aree interne viste come risorsa

Anche un mediocre studente di economia comprenderebbe agevolmente il fatto che, per crescere, un Paese deve, al contrario,  far leva soprattutto sulle sue aree più deboli che hanno maggiori margini di innalzare i livelli di benessere per i cittadini. Del resto, la Germania quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, ha attraversato la difficile fase della riunificazione è partita insistendo proprio sullo sviluppo dell’Est, più arretrato, piuttosto che dell’Ovest, e che poi ha finito col trainare l’intero paese.

L’Italia dovrebbe fare allo stesso modo, puntando proprio sul Mezzogiorno e sulle aree interne, che ha ampi margini di crescita (rispetto ad un Nord oramai saturo) per farne la locomotiva del Paese.

I modelli attuali di economia politica utilizzati per governare i mercati  e i processi di crescita nazionali  sono, sostanzialmente,   caratterizzati dal fatto di prevedere una bassa coesione sociale  ed un’alta competitività tra le aree. Laddove sono presenti meccanismi caratterizzati da alta competitività ci può essere, tutt’al più,  crescita di ricchezza da parte di un’area, che è già forte,  che  usa correttamente  le regole del mercato e, quindi,  si muove rispettando la legge,  ma generando – al contempo – meccanismi speculativi. Vero è che si   muove usando  le regole del mercato,  ma lo fa trasferendo ricchezza dalla parte  meno competitiva a quella più competitiva,  come accade dal Sud verso il Nord e dalle aree interne alla fascia costiera. Il compito dello Stato dovrebbe, invece, essere quello  di tenere basso il livello di competitività  tra le aree e, quindi, all’interno del Paese,  in  modo da aumentare la coesione sociale. Se quest’ultima aumenta, si accresce un interesse pubblico, condiviso come interesse nazionale tra le diverse aree, e, quindi, l’obiettivo primo dell’azione economica non è più la ricerca dell’utilità di una singola area, bensì dell’intero sistema nazionale, dove la crescita dell’utilità di una singola regione, poniamo  per esempio il Mezzogiorno e le aree interne, genera meccanismi di crescita che possono  fare da  volano anche per le regioni del Nord.

    Non è quindi un problema di modello, ma di approccio. Se usiamo un approccio competitivo, si producono, ovviamente, meccanismi di sperequazione, come intende fare l’appena approvata legge per l’“Autonomia differenziata”; se, invece, scegliamo un approccio di coesione sociale, le aree fragili e quelle interne potrebbero diventare  volano non di crescita ma di sviluppo economico,  dove la crescita inizia a diventare anche fattore di sviluppo e, quindi, di miglioramento della condizione di vita  dei cittadini.

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