La Biblioteca Gullo presenta Sanasàna di Elisa Longo

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Continuano gli incontri culturali alla Biblioteca Gullo di Casali del Manco (CS). Questa volta ospite è stata Elisa Longo con un libro di poesie.

In occasione del #MaggioDeiLibri, iniziativa promossa dal Centro per il Libro e la Lettura,  è stato presentata negli spazi della suggestiva Biblioteca Gullo la raccolta poetica Sanasàna (Tralerighe edizioni, 2023)di Elisa Longo. La silloge è stata proposta tra i candidati al Premio Strega Poesia 2024.

La Longo, storica dell’arte e autrice per Exibart, Meridiani, Calabria-cult, è attualmente direttrice del MABOS (Museo dell’Arte del Bosco della Sila) ed è tra i fondatori del collettivo ADE con cui porta avanti sperimentazioni sulla poesia sonora.

Di Anna De Vincenti

Devo dire che all’inizio, quando la direttrice della Biblioteca, Antonella Bongarzone, mi ha chiesto di presentare un libro di poesie, ho avuto qualche incertezza perché il mio incontro con la poesia è stato tardivo, mi sono formata sui classici e sui saggi, interessandomi principalmente di filosofia e si sa non sempre il linguaggio filosofico e quello poetico convergono e dunque mi sentivo in qualche modo inadeguata. Ma io sono una vecchia testarda che ama ancora le sfide e allora ho voluto provarmi. Beh, devo dirvi adesso che ringrazio la direttrice di questa occasione perché l’incontro con il bel libro di Elisa Longo è stato piacevolissimo ma soprattutto intenso. L’ho molto apprezzato per diversi motivi che proverò a dirvi e dunque sono lieta di aver conosciuto Elisa Longo attraverso i suoi versi. Elisa, come ogni artista, scrivendo ci ha fatto un dono, si è esposta, in qualche modo il suo libro non le appartiene più, non è più il Sanasana che lei ha scritto, come il quadro di Magritte – questa non è una pipa – ma è il mio libro nel senso che è passato attraverso il filtro della mia lettura, della mia sensibilità, della mia emozione e dunque forse è diventato un’altra cosa rispetto alle intenzioni dell’autrice. Come diceva Nietzsche “non ci sono fatti ma interpretazioni”. E allora non me ne voglia Elisa se io darò forse altri sensi alle sue parole.

Anna De Vincenti, Elisa Longo, Romeo Bufalo

Dicevo, diversi motivi per amare questo libro e non solo per la sua poetica che è incisiva, dura per certi aspetti ma nel contempo con punte di liricità pura, ma per le suggestioni a cui rimanda perché, io credo, che la poesia come la filosofia non deve abitare l’iperuranio ma questa terra, questo mondo e certamente alzare anche gli occhi al cielo senza, però, evitare gli inciampi che incontra sul terreno della realtà.

La prima suggestione riguarda il fatto che leggendo la biografia di Elisa Longo ho scoperto che si tratta di una giovane donna che, tra l’altro, si interessa di questioni di genere e questo dato della sua vita mi crea subito un moto di empatia (scusate, ma sono di parte) perché mi dà l’occasione di riflettere sulla frase “veniamo da lontano e andiamo lontano” che mutuo da Togliatti adattandola al cammino delle donne. Io sono una ragazza del secolo scorso e sono una vetero-femminista che ha combattuto battaglie importanti quali il divorzio e la rivendicazione della libera scelta della donna in tema di aborto (oggi messa in discussione con argomenti meschini, triviali e di sapore fortemente restauratore) che è stata costretta ad uccidere per legittima difesa l’angelo del focolare e che poi si è trovata a dover uccidere anche l’angelo del ciclostile. Io e le mie compagne abbiamo vissuto una grande stagione, gli anni ‘70, di lotta e di liberazione, di rimessa in discussione dei cosiddetti valori tradizionali, quelli che si rifanno alla logica patriarcale, abbiamo cambiato noi stesse e anche un po’ il mondo, con sofferenza ma anche con allegria. Noi eravamo consapevoli di stare facendo la storia, camminando sulla strada tracciata dalle suffragette prima – le nostre ideali nonne –  e dalle staffette partigiane e dalle madri costituenti poi – le nostre ideali madri – e mi conforta pensare che oggi, che viviamo tempi così bui, non tutto sia perduto se ci sono queste nuove giovani donne che continuano a camminare sulla strada tracciata e allora penso che il vento dell’emancipazione e della liberazione della donna nessuno lo fermerà, potranno solo ritardarlo, dargli fastidio, frapporgli muri ma non lo fermeranno. Chi mi da questa certezza? Beh, proprio Elisa quando per esempio scrive della difficoltà dell’essere donna ma anche dell’irrinunciabilità ad esserlo: Credevo che l’amore edificasse come maestranza antica basiliche di pietre eterne. Invece come Adamo ti levi dalle costole un miscuglio di materia effimera mi abbandoni sulla terra senza fortificarmi. Ma pure informe e dolente io sono al mondo un lumino solitario e la mia luce basta a se stessa. In quest’eremo buio d’inesattezze e verità irrisolte l’uomo che mi spegne non è ancora nato. (p. 64). Oppure quando scrive:

Sul mio corpo la femminilità è una ferita che non cicatrizza: per la psicanalisi è il sintomo di una castrazione ancestrale per la verità è la ferocia della bestia che addenta l’innocente. Il dolore lancinante del mestruo dice di me che non so contenermi che a fiumi mi riverso sui panni bianchi con un incedere a macchia d’olio scarlatto. Dice di me che pure so rendermi ospitale che ho l’utero ancora da abitare. Che sono una terra fertile per gli occhi del futuro e per i roseti antichi che ai margini del desiderio ancora stentano a morire. Alla madre di Cristo è bastato il miracolo, alle madri ignote serve l’amore…(p. 68).

Ma questi versi mi rimandano ad un’altra suggestione.

Mi risuona nella mente la parte finale del libro di Romeo Bufalo L’inquietudine dell’altro (Pellegrini Editore, Cosenza, 2021) dal titolo In nomine matris. Bufalo sostiene che l’altro ci inquieta ma, confortato dal pensiero di molti filosofi, aggiunge che bisogna prendere atto di questo sentimento, farci i conti e superarlo, trasformarlo in filia.  Siamo proprio nel cuore del tema della differenza di genere, il temadel negativo, la donna come altro per eccellenza, ma anche della magica forza del negativo perché la donna è l’unico essere capace di trasformare, naturalmente, il negativo, il diverso da sè, in positivo, accogliendolo, proteggendolo e formando vita.  Di questa magica forza del negativo ne parla Luisa Muraro nell’Introduzione del libro che ha proprio questo titolo (Diotima, La magica forza del negativo, Liguori Editore, Napoli, 2005): “il nostro intento era più o meno questo…[evitare che il negativo fosse] un ospite triste e muto [ma che invece entrasse a pieno titolo] nel discorso [perché già questo significava che era] uscito dalla sua assoluta negatività senza più pretendere di trionfare da solo…. E se il negativo non disfa o non completamente, l’ordine del discorso in cui si è introdotto o è stato introdotto, allora vuol dire che, poco o tanto, ha smesso di distruggere e che sta al gioco del simbolico tra presenza e assenza…… [e se non distrugge più, allora il negativo cosa fa?]  fa pensare, genera il pensiero, lo sprigiona, lo scioglie, lo libera”.(pp. 1,2) E’ esattamente quello che fanno Bufalo, con linguaggio filosofico, dando vita ad una filosofia materna in cui il femminile è posto come la dimensione originaria dell’umano in quanto costitutivamente accogliente il diverso e come fa con linguaggio poetico Elisa Longo.  

C’è filosofia nei versi della poetessa come c’è poesia nella prosa del filosofo e dunque questi due mondi, pur nella loro diversità, sembrano avvicinarsi e questo perché gli artisti spesso, più o meno consapevolmente, riescono a riprodurre in un’immagine ciò che i filosofi pensano attraverso concetti. Tra l’altro, lei è una storica dell’arte e dunque per lei questo avvicinamento e questa contaminazione sono ancora di più naturali.

E allora andiamo al terzo motivo di fascinazione evocato dal libro: la forza delle parole.

L’autrice ha una personalità versatile, profonda e con le parole è capace di compiere azioni perché ha la consapevolezza che le parole, per non essere vuote, per non essere il chiacchiericcio di cui parla Heidegger in una vita inautentica, devono appunto produrre azione e nel loro essere forti e nello stesso tempo lievi evocare immagini di mondi, sentimenti, persone, paesaggi, nostalgia, emozioni, rabbia, insomma pulsare di vita.

Già il titolo all’inizio mi era sembrato enigmatico. Sanasana, una parola mai sentita  che mi evocava un che di orientale, mi immaginavo un libro di poesie stile new age ma leggendo ho scoperto che questa parola significava, risuonava in me, eccome se risuonava, perché la usava anche mia nonna. Trattasi di una figura retorica, una allitterazione, che Elisa fa diventare una parola sola, insomma una sorta di neologismo, ma che rimanda al nostro antico dialetto: Io mi metto nelle mani degli altri sanasana, dice Elisa sul finale e mentre Donata Marrazzo nella sua bella prefazione dice di fiutare il pericolo, credo pensasse ad una resa, ad un abbandonarsi in mani altrui, magari di un qualcuno che possa decidere per lei, secondo me, invece, sana sana (che nel nostro dialetto significa completamente, interamente, con tutta me stessa) ha il significato del dono di cui parlavo prima: Elisa ci consegna tutta la sua produzione poetica, i suoi sentimenti, il suo dolore, la sua forza sperando che noi siamo capaci di farne buon uso, di coprire con un velo di pudore il suo essersi data a noi nuda, vera, completamente, sana sana appunto.

Ecco, io credo che questo sia un uso straordinario della parole e della parole dialettale che solo una donna riesce a fare e dunque veniamo al grande interrogativo che attraversa il dibattito tra le intellettuali: esiste una scrittura al femminile? Una scrittura cioè, diversa da quella maschile e immediatamente riconoscibile in sé? Insomma, le donne scrivono come gli uomini oppure sono espressione non solo nei contenuti ma anche nel lessico e nell’uso delle parole della loro alterità? Lo dico in un altro modo: messi davanti a due poesie o due brani di un romanzo, di una novella, a due quadri, a noi entrambi sconosciuti, uno di un uomo e un di una donna, li riconosciamo rispetto al genere? E se li riconosciamo, da cosa li riconosciamo?

Già nel 1976 Biancamaria Frabotta curò un’antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi (oggi era appunto il 1976) dal titolo Donne in poesia, edito da Savelli, con una nota critica di Dacia Maraini in cui si ponevano le basi di una riflessione su questi temi  a fronte dell’idea dominante che le donne scrivono romanzetti rosa o autobiografie o lettere d’amore, insomma una letteratura minore, e dunque che un’antologia della poesia femminile fosse “…un non-senso, un’erronea interpretazione non solo del valore della poesia,  ma della stessa natura umana” (Gaetano Salveti, Poesia femminile del ‘900, Edizioni del Sestante, Padova, 1964 ) oppure che la poesia non ha aggettivi e se li ha è come rimarcare una subalternità o ancora, come sosteneva Croce, la grande poesia è maschile, nel senso di universale (B.M. Frabotta, Introduzione, p.17.) La Frabotta invece con forza ribadisce che “Nessuna donna che scrive può permettersi di fare spallucce sulla propria condizione di donna, così come non può permettersi, pena la subalternità, l’aggiramento della scomoda, ma espugnabile solo nella coscienza, barricata della discriminazione”. (Ib.p.13). Le fa eco Dacia Maraini che sottolinea come la separazione tra maschile e femminile in letteratura esista ed è “non causa ma risultato di una lunga storia di emarginazione e di esclusione. Le parole sono strumenti, è vero, e come tali non hanno sesso. Ma proprio come strumenti sono serviti finora ad esprimere il punto di vista dell’uomo e non quello della donna. (D. Maraini, Nota critica, p. 29.)

Il dibattito continua ancora oggi ed infatti è stato lungamente affrontato non molto tempo fa su il  libraio.it. La scrittrice Bianca Pitzorno nel suo contributo dal titolo Esiste oggi una letteratura femminile? E se sì, da cosa si riconosce? sottolinea che “le donne fino a non moltissimi anni fa non scrivevano “pubblicamente”, nel senso che scrivevano lettere e diari, ma non narrativa né saggistica e soprattutto non pubblicavano, in quanto la cosa veniva ritenuta sconveniente, tanto è vero che le le tre sorelle Brontë si firmavano con pseudonimi maschili”, mentre Elena Varvello nel suo contributo dal titolo Esiste una scrittura femminile?, entra maggiormente nella problematica chiarendo che “il ragionamento fin qua svolto attiene al costume più che alla letteratura ed ancora nulla ci dice se esista davvero qualcosa di specifico che distingua senza ombra di dubbio i testi scritti dalle donne da quelli scritti dagli uomini…Davvero esiste una scrittura ‘al femminile’? C’è chi ne è assolutamente sicuro. Ma non dice da cosa si riconosce, in cosa si distingue. Per i temi che tratta? Perché le sue protagoniste sono di sesso femminile, e così le lettrici a cui ci si rivolge? Per l’attenzione a certi dettagli? Per l’empatia con le eroine, anche le più antipatiche?…Nei libri di Elsa Morante, in quelli di Anna Maria Ortese o di Natalia Ginzburg la voce femminile è immediatamente riconoscibile, così come negli scritti di Virginia Woolf. Però secondo la stessa Virginia, in particolare nel saggio Una stanza tutta per sé che tratta del tema  ‘donne e scrittura’,le differenze consistono essenzialmente nei difetti tipici dei due sessi.Le donne che scrivono sono state ridotte al silenzio per tanto tempo che adesso non riescono a liberarsi dal rancore e dalla rabbia. Gli uomini non riescono a liberarsi dall’ipertrofia dell’io. Perché la loro scrittura raggiunga i vertici dell’arte, autore e autrice devono diventare “androgini”, riconoscere i primi la parte femminile, le seconde quella maschile del proprio essere, dimenticare la rabbia e l’egoismo, contemplare il mondo in pace, non cercare rivendicazioni ma l’espressione della verità. Probabilmente una ’ letteratura femminile’ esiste. Ma può esserne autore un uomo come una donna purché ‘appollaiati sui rami di quegli altri alberi, sotto altri cieli’ “.

Mi pare un punto di vista molto interessante, ma ancora più interessante mi sembrano le parole di Gloria Gaetano nella sua introduzione a La scrittura delle donne: “La soggettività femminile nella scrittura (che porta innovazioni forti nella tradizione) si esplica a vari livelli: con il mettere al centro, introducendola come protagonista, una donna, con il disegnare uno scenario dove la relazione tra donne, sia pure diverse, crea un clima, un’atmosfera e permette una grammatica che rompe lo schema in ‘o’ e in ‘i’ aprendo il suono della pagina in ‘a’ e ‘e’ riappropriandosi della parola detta (cioè del suono della parola e della voce), che è parte del linguaggio del corpo. Ancora, la soggettività femminile si esplica con l’affrontare delle tematiche “trasparenti” per lo sguardo dello scrittore (e del lettore), dando visibilità non solo ad esse ma ad un punto di vista inedito e cosciente di sé che dunque abbraccia la visione del mondo: é da qui che nascono i grandi libri di denuncia della propria condizione, dei comportamenti maschili, dei conflitti tra i due generi, ma anche dei guasti per tutti (es. la guerra, la violenza…) e anche da qui nascono i grandi libri di felicità e di gioco, di libertà.” E più avanti: “Il punto è che le scrittrici svelano la violenza della condizione femminile, non solo perché interessa a loro e alle loro lettrici, ma prima ancora perché la vedono; svelano la brutalità e la profonda inumanità della guerra perché la soffrono e la vivono come pratica esclusivamente maschile sia per gli interessi materiali sia per l’incapacità di accettare differenze alla pari.”

Questi aspetti io li trovo nella scrittura di Elisa, e vi faccio qualche esempio: quando ci dice del dolore: Chissà cosa succede quando ci muoviamo per scappare se lasciamo tra un binario e l’altro l’infelicità che c’incalza. Inquadrati a pezzi trattenuti dai riflessi i bambini giocano nelle piazze dove non fermiamo: per una palla abbandonano gli zaini senza esitazione. (p. 12) (forse ci vuole dire che la felicità è lontana e persa) e ancora: … Il dolore, invero sta nelle persone che accettano – davanti a questo vuoto – che imparano – qui e ora – a mancare. (p. 27).

Non ci da  pace perché lei non si da pace a vedere …Alberigo manto scuro [che] si stiracchia tra papaveri e cicorie ma fuori non c’è più nessuno nessun canto ad allietare gli orti. (p. 15)e scava nell’anima rivelandoci i nostri scudi, le nostre maschere perché …come le maioliche  surclassiamo i limiti estetici dell’intonaco. (p. 13).

Quanto ancora da dire, quante meraviglie tirar fuori da questo libro che è uno scrigno infinito: la desolazione dei luoghi abbandonati, che un tempo avevano vita e ora sono abitati dal silenzio; bisogna convocare i morti, farli sedere presso di noi per farli ancora parlare, per aiutarci a ricordare e non smarrire le nostre radici: … Siamo i depositari di un’iconografia dell’abbandono che incrina la fede dei tabernacoli delle edicole votive. (p. 24)

E ancora: la  violenza sulla natura, il paesaggio cementificato e il tradimento verso le generazioni future: I bambini che ci guardano non ci lasciano scampo: abbassiamo lo sguardo intimiditi, scrutati nel profondo ci ritiriamo per la vergogna di non essere abbastanza. (p. 18).

C’è tanto nei suoi versi, c’è l’amore perso,  ci sono le donne, c’è il loro universo – quello che io chiamo maternale – ma non c’è mai, e questo è un grande pregio, una nostalgia che stravolga tanto  il passato  da presentarcelo mitico. Anche questo passa sanosano attraverso le maglie della critica: che ce ne facciamo del dolore di allora, delle sofferenze di allora, delle lotte e delle parche conquiste se oggi non riusciamo a farne lievito di un futuro migliore da costruire con rinnovate energie? Ora è tempo di camminare da soli sulle vesciche del grande passo grecanico che pure sappiamo a memoria. Con l’abside a oriente la Chiesa ortodossa battezza i figli delle donne lasciate alla porta ancora impure per la fonte e per l’altare. Su queste vie si contano manti neri e ficundiàni che insistenti difendono la vita cromatica del declivio. Il sole s’alza feroce come un inganno di Dio e tra le case arroccate le impronte del dolo sui sassi. (p. 20).

Lei lo dice meglio di me, con un linguaggio poetico che a me, filosofa, manca ma ma la rabbia mi pare la stessa: Quelli che vengono devono farsi spazio, tollerare l’indigenza superare la coltre di fumo che caratterizza il fuoco che arde dal mirto l’alloro che torna all’Olimpo. Quelli che vengono devono entrare con perizia, prepararsi alla fatica praticare la pazienza. Sono le stanze che lasciamo imbrunire con disincanto a toglierci il sonno come anticamere della morte. Sull’unica sedia sopravvissuta al massacro del tempo già pesa la conta dei giorni. Pure l’ombra del porco appeso alle reti si fa ristoro e invoca dal buio il freddo tardivo alle porte. (p.21).

Io sono convinta che una scrittura femminile, dunque, esista ed abbia la caratteristica di essere rotonda, sinuosa, e spero di essere riuscita a darne conto attraverso le poesie di Elisa. La sua scrittura è femminile perché ricamata come lo era la lingua inventata dalle donne cinesi della remota provincia dello Hunan, all’epoca dell’imperialismo cinese durante il XVII secolo. Il Nu Shu – scrittura delle donne – nacque per comunicare tra donne e farsi coraggio nel dover sopportare la loro terribile condizione di sottomissione completa prima al padre e poi al marito, si contrappose al Nan Shu, scrittura dei maschi che aveva caratteri di forma quadrata e con linee dritte. Il Nu Shu, la scrittura delle donne, composta da 7.000 caratteri, per contrasto aveva forme curvilinee e tratti sinuosi tanto da venir scambiata per disegni tanto più che le donne solevano ricamarli sui vestiti, senza che gli uomini potessero decifrarli. Come le donne cinesi anche le nostre poetesse, scrittrici e pittrici hanno inventato una declinazione particolare della lingua e della forma espressiva in generale.

“ ‘Ho tanta fede in te. Mi sembra che saprei aspettare la tua voce in silenzio per secoli di oscurità’ scrive Antonia Pozzi. Immaginiamo che questi versi siano rivolti alla donna, che ha taciuto sempre, pur avendo tanto da dire: ‘tu sai tutti i segreti, come il sole potresti far fiorire i gerani e la zagara selvaggia sul fondo delle case di pietra, delle prigioni leggendarie’. E’ un messaggio di amore e di fiducia che facciamo nostro: forse davvero i gerani e la zagara selvaggia cominciano oggi a crescere sul fondo delle case di pietra, nelle prigioni delle famiglie, dentro il buio della paura femminile. Forse il silenzio di oscurità sta per essere rotto dalle voci chiare e orgogliose delle nuove donne del mondo” diceva la Maraini (op. cit. p. 34).

Parole e speranze valide ancora oggi che io dedico sanesane alla nostra poetessa, passandole il testimone e chiedendole di continuare  con il suo impegno nella costruzione di un futuro migliore per le donne e, quindi, per l’umanità tutta.

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