La Corte Costituzionale boccia l’Autonomia Differenziata

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Attendevamo con ansia la notizia e, finalmente, è arrivata!

La Corte Costituzionale, pur ritenendo “non fondata” la questione di costituzionalità dell’intera legge (la n.86/2024 del 26/06/2024, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”), in parziale accoglimento dei  ricorsi proposti dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, ha riconosciuto come: “illegittime specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo“.

Dobbiamo ricordare che la Presidenza del Consiglio aveva difeso la legge davanti alla Consulta, insieme con specifici atti di intervento ad opponendum delle Regioni Lombardia, Piemonte e Veneto. In questo modo, nei mesi scorsi abbiamo assistito ad un conflitto istituzionale tra regioni – senza precedenti – sui principi costituzionali e sui rapporti con lo Stato; uno scontro, davvero triste per il Paese e la sua coesione sociale ed economica,  che ha visto un gruppo di regioni del Sud entrare in aperto conflitto con alcune del Nord, in ordine alle modalità di attuazione dell’autonomia differenziata ai sensi dell’art.116 della Costituzione.

Ricordiamo che la legge n.86/2024 del 26/06/2024, entrata in vigore il 13/07/2024, un provvedimento “bandiera” fortemente voluto dalla Lega e dal Ministro Roberto Calderoli, con i suoi 11 articoli definisce i principi generali per l’attribuzione alle regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, e per la modifica e la revoca delle stesse, nonché delle modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una regione.

Ebbene, nella giornata di ieri la Consulta ha bocciato ben 7 norme della legge sull’Autonomia differenziata, dichiarandole incostituzionali, facendo – quindi – crollare buona parte del suo impianto normativo.

 Il Parlamento è così richiamato a riscrivere i principali presupposti e principi sui quali  essa si fonda, che, invero, sin dal primo momento, erano stati oggetto di un vivace confronto politico, che dal Parlamento si è allargato all’intero Paese, con discussioni serrate e manifestazioni  pubbliche di aperta contestazione della riforma, che hanno rischiato e rischiano, tuttora, di mettere a repentaglio  l’Unità e la tenuta dell’intero sistema.

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio Comunicazione e stampa della Consulta  ieri pomeriggio ha reso noti i numerosi profili di illegittimità costituzionali riscontrati. In primo luogo, la Corte ha richiamato il principio costituzionale di “sussidiarietà“, seriamente minato dalla legge n.86/2024.

Secondo i Giudici costituzionali, infatti: “ l’art. 116, terzo comma, della Costituzione deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana. Essa riconosce, insieme al ruolo fondamentale delle regioni e alla possibilità che esse ottengano forme particolari di autonomia, i principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio”.  La Corte ritiene che:la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’art. 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni. In questo quadro, l’autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini.

La Corte Costituzionale, nel dettaglio, ha, dunque, ravvisato l’incostituzionalità dei seguenti profili della legge:

“ – la possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà;

 – il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP) priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento;

 – la previsione che sia un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (dPCm) a determinare l’aggiornamento dei LEP;

 – il ricorso alla procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023) per la determinazione dei LEP con dPCm, sino all’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla stessa legge per definire i LEP;

– la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito; in base a tale previsione, potrebbero essere premiate proprio le regioni inefficienti, che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni;

 – la facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica;

– l’estensione della legge n. 86 del 2024, e dunque dell’art. 116, terzo comma, Cost. alle regioni a statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali”.

La Corte, quindi, ha ritenuto incostituzionale anche il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei: “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP) priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento”. Del resto, la norma è stata concepita ad invarianza finanziaria, senza alcuna previsione di finanziamento dei LEP,  per i quali, secondo le stime più prudenti, servirebbe una cifra non inferiore a 80/90 miliardi di euro, che non si sa come lo Stato potrà procurarsi, atteso il peso del debito pubblico e una crescita che rimane da molti anni assai modesta.

In ordine alla determinazione dei LEP, viene – inoltre – richiamata la necessità di coinvolgere a pieno titolo il Parlamento, finora chiamato ad un ruolo di mera ratifica, escluso dal Governo da qualsiasi valutazione sostanziale, affidandone il compito alla contestata Commissione CLEP di Sabino Cassese,  pur essa nominata dall’esecutivo.

La Consulta boccia, inoltre, la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito che potrebbe premiare le regioni inefficienti, che non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni.

Riconosciuta illegittima anche la facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica.

Nella sua decisione, la Corte ha, comunque, inteso salvare talune altre previsioni della legge n. 86 del 2024 interpetrandole in modo costituzionalmente orientato:

“ – l’iniziativa legislativa relativa alla legge di differenziazione non va intesa come riservata unicamente al Governo;

– la legge di differenziazione non è di mera approvazione dell’intesa (“prendere o lasciare”) ma implica il potere di emendamento delle Camere; in tal caso l’intesa potrà essere eventualmente rinegoziata;

– la limitazione della necessità di predeterminare i LEP ad alcune materie (distinzione tra “materie LEP” e “materie-no LEP”) va intesa nel senso che, se il legislatore qualifica una materia come “no-LEP”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali;

 – l’individuazione, tramite compartecipazioni al gettito di tributi erariali, delle risorse destinate alle funzioni trasferite dovrà avvenire non sulla base della spesa storica, bensì prendendo a riferimento costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, liberando risorse da mantenere in capo allo Stato per la copertura delle spese che, nonostante la devoluzione, restano comunque a carico dello stesso;

– la clausola di invarianza finanziaria richiede – oltre a quanto precisato al punto precedente – che, al momento della conclusione dell’intesa e dell’individuazione delle relative risorse, si tenga conto del quadro generale della finanza pubblica, degli andamenti del ciclo economico, del rispetto degli obblighi eurounitari”.

Nella stessa comunicazione che è venuta ieri pomeriggio dalla Consulta, l’indicazione che, a questo punto: “Spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge. La Corte resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale”.

Le opposizioni e le regioni meridionali plaudono alla decisione della Corte che, sicuramente, rimette in discussione l’intero impianto della riforma, chiamando il Parlamento ad una sua rivisitazione profonda, che, questa volta, preveda un suo ruolo più pregnante, soprattutto nella individuazione dei LEP e nella migliore tutela e concreta declinazione del principio costituzionale di “sussidiarietà” che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni.

Le audizioni parlamentari avevano già segnalato i profili di incostituzionalità della riforma

Tutti i costituzionalisti, gli economisti, la Banca d’Italia, le organizzazioni sindacali e datoriali auditi nelle Commissioni parlamentari di Camera e Senato avevano, del resto, rivolto dure critiche alla riforma, sia sotto il profilo della sua legittimità costituzionale che economico ed organizzativo, in ordine ai poteri e funzioni da devolvere alle regioni, e di tenuta dei conti del bilancio dello Stato, oltre che a minare seriamente l’Unità del Paese e la coesione sociale.

Chi scrive, ha avuto l’onore di partecipare, quale economista, alle audizioni svoltesi nel marzo scorso, in 1ª Commissione “Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni” della Camera dei Deputati, sull’allora disegno di legge Calderoli (C. 1665 Governo) sull’autonomia differenziata, evidenziando – peraltro – i medesimi  rilievi che oggi la stessa Corte solleva, accanto alla necessità di procedere con un approccio diverso.

Anche l’Intergruppo Parlamentare “Sud, Aree fragili e Isole minori, presieduto dall’On.le Alessandro Caramiello, si è in questi mesi speso fortemente per aprire il dibattito sulla contestata riforma, proponendo soluzioni diverse da quelle della Lega di Calderoli nel riorganizzare i rapporti tra Stato e regioni, pur muovendosi nel rispetto del Titolo V° della Costituzione, maldestramente riformato nel 2001.

Infatti, se usiamo un approccio competitivo, come quello proposto  finora dalla Legge Calderoli, l’autonomia differenziata produrrà, ovviamente,  meccanismi di sperequazione; se, invece, scegliamo un approccio di coesione sociale, e la norma viene migliorata per accrescere il meccanismo di coesione,  potrebbe anche diventare  volano non di crescita ma di sviluppo economico,  dove la crescita inizia a diventare anche fattore di sviluppo e, quindi, di miglioramento della condizione di vita  dei cittadini.

In definitiva, adesso che ritorna in Parlamento, l’intento che la legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata dovrebbe avere, secondo chi scrive,  è quello di evitare di  procedere generando ulteriori meccanismi di sperequazione; quindi,  il suggerimento al legislatore è quello di mutare approccio, mirando ad accrescere la coesione sociale,  piuttosto che la competitività fra le aree, come invece la riforma  Calderoli con la legge n.86/2024 del 26/06/2024 ha cercato  finora di fare. 

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