di Siria Piccirillo
Spesso mi è stato chiesto cosa sia la poesia, questa sconosciuta in cui mi rifugio. Mi hanno chiesto il senso della scrittura, quella matura e pura che spinge gli esseri umani, quelli sensibili, dall’animo isolato, quegli uomini e quelle donne che riescono a riconoscere la costellazione della loro essenza, nell’osservazione del cielo stellato. Perché sono loro: gli scrittori, i poeti, coloro che amano il calamaio e gli artisti, ad interrogarsi su ciò che li circonda. Dall’alba della mia passione per la scrittura ho ascoltato dire anche da professionisti e miei colleghi che questi artisti sono dei pessimisti, era pessimista Giacomo con Eugenio e con Orazio, più anziano. Come smentire, anni e anni di convinzioni inculcate in una società che non sa più apprezzare la bellezza di un’opera d’arte e non sa leggere la poesia. “A cosa serve la poesia?” dibatteva il mio amico Eugenio Montale, quando dinanzi ad una platea sostenne un discorso, quello più emozionante di tutti, il discorso per il Nobel, insomma qualcosa che capita tutti i giorni a chiunque salutiamo per strada, perché sarcasticamente questo scrittore fece questa singola domanda alla sua platea e la risposta fu ancora più sorprendente: “la poesia non serve a nulla” e aveva ragione il mio mentore, la poesia non serve a niente se non si sa leggerla e non parlo della metrica, non parlo nemmeno di endecasillabi. Un uomo che ha chiesto alla luna: “Luna che fai tu in ciel?” è un uomo controcorrente, fuori dagli schemi, è un uomo che non è un pessimista, ma bensì è attento, curioso, ludico, stravagante, ma sa notare i dettagli e sa interrogarsi. Solo un poeta può guardare il cielo e domandarsi cosa sia quell’enorme distesa scura sopra i suoi capelli, il poeta è delicato e conosce come uno psichiatra della parola il modo per scrivere le sue sensazioni su un foglio di carta, sa stupire come una stella cadente e sa centrare il bersaglio-lettore, diritto nel cuore. Se ancora, si pensa che Leopardi sia un pessimista solo perché era tediato dai pochi, quasi assenti, rapporti sessuali che non riusciva ad intessere con le donne, per favore, licenziate tutti i professori di letteratura italiana nei licei, banditeli dalla loro cattedra. I giovani devono conoscere la verità e devono avere la possibilità di scoprire che questi uomini non sono noiosi, non scrivevano poesie perché erano antichi, loro erano diversi. L’artista è diverso, perché sa andare oltre il noumeno delle cose reali, vola sopra la razionalità e viaggia lontano con la fantasia. L’amore per le lettere nasce quando una donna o un uomo riescono a visionare questa bellezza, l’espressione dei versi è riconoscere sé stessi in quel componimento, compongo per far trovare al mondo la propria dimensione nei miei versi, scrivo poesia per necessità, sopravvivenza. Si arranca nella vita quando s’immagina un tramonto dietro un colle ermo e solitario, per il bisogno di uscire dalla propria zona di comfort per guardare il mare, questa è una circostanza solo di chi utilizza la scrittura come escape, o come dicono i latini, il loro locus amoenus, quel luogo idillico-paradisiaco in cui si ritrova il proprio sé e che anni ed anni di psicoanalisi freudiana non hanno compreso, negli artisti pazzi. La follia è solo dell’artista, bisogna avere coraggio per essere diversi in un mondo in cui tutti si omologano, era dell’apparenza nella comunicazione più spietata, distruzione della propria personalità per assomigliare a gente che non hanno cultura, un proprio stile, lo sfruttamento dei più deboli a scopo di lucro sulle sofferenze degli altri, ecco, la società di oggi. Allora aveva ragione papà Montale, la poesia non serve a nulla, la mia poesia non occorre a nessuno, se nessuno legge le mie righe, ma tutti si soffermano sullo spazio vuoto del cyber mondo, tra un verso e un altro. Regalate la poesia, donatela a chi soffre ed è in fin di vita, sprigionatela come una melodia per portare sollievo nei fronti di guerra, nota bene Ungaretti, leggiamo la poesia d’amore della Dickinson e obbligate il vostro animo alla gentilezza, concedete ai bambini di poter scartare i loro sogni, di credere che il mondo sia un posto migliore, non rovinate la loro innocenza e non privateli della libertà del loro tempo. Carpe diem, quam minimum credula postero, da latinista lo traduco come “Cogli (coltiva) il giorno, quanto meno tu possa affidarti in un futuro” che è incerto, non si conosce. Vivi ogni secondo della tua esistenza che non è banalmente ‘cogli l’attimo’, erroneamente tradotto dai moderni. Il nostro caro trisavolo Orazio cela dietro questa frase un significato che racchiude la bellezza di un messaggio, ancora più moderno di quello tradotto in errore, la frase del bigliettino, lo Xenia tipico dei cioccolatini sta per ‘goditi il presente, fai quel sorriso, manda quel bacio e vivi oggi, non domani perché potresti non conoscere l’ora del giorno seguente’. Non dite che la poesia è superata, non fate quest’errore, ragazzi, essa non serve a niente e sono d’accordo, non occorre per costruire i ponti, non ha nulla a che vedere con un qualcosa di concreto, non serve nemmeno per guadagnare uno stipendio, non serve a nulla. Se non a tutto, perché la poesia occorre a chi in questo momento è disperato, essa non può dare uno stipendio, ma se perdessi il lavoro potrebbe servire per raccogliere le forze e ricominciare, aiuta quel padre e quella madre che hanno perso la propria figlia a consolare per pochi secondi, lo strazio interiore del loro cuore sapendo che anche Umberto Saba soffrì come loro. La poesia è comprensione. La poesia serve a tutti coloro che trascorrono le lore ore in ospedale, serve ai loro cari. È utile per dare forza, amore, compagnia a chi si sente solo e lontano dalla propria famiglia. Quindi, la poesia non serve a niente, ma è ciò che ci tiene in vita, uno spiraglio di luce che attraverso il filo rosso dell’unione e del riconoscimento tiene unite le mani di tutti, serve per plasmare il passato col presente e perché no, potrebbe servire anche come mediazione tra chi è vivo e chi è morto.