“Le mani sulla città”: l’anniversario di un film che apre ad una riflessione

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Le mani sulla città

A sessanta anni dall’uscita del film Le mani sulla città di Francesco Rosi a Napoli si apre il tempo su di una riflessione sui beni comuni e su come a distanza di decenni nuove forme di aggressione territoriale e di privatizzazione si stia per abbattere sulla città.

di Paola Nugnes

La settimana scorsa all’Istituto di Studi Filosofici di palazzo Marigliano si è tenuto un convegno su questo tema che ha chiamato molti relatori e un folto pubblico.

Il patto per Napoli tra il governo centrale Draghi e la nuova amministrazione Manfredi è stato al centro del dibattito che ha provato a rispondere alla domanda retorica sottesa, se il patto per Napoli sia effettivamente una mano per la città, o piuttosto una nuova stagione di mani sulla città.

Il “patto per Napoli”, preteso da Manfredi a fronte della sua candidatura a sindaco, è davvero il salvagente per la città? L’aiuto insperato, l’unica alternativa possibile per salvare i conti in rosso o non è stato piuttosto il ricatto finale, la corda a cui la città è stata costretta ad impiccarsi, costretta dai conti, da debiti statali, non suoi, dagli interessi sul debito incalzanti per un tasso usurario.

A molti sembra piuttosto l’esito disastroso e di una strategia messa a punto per giungere alla privatizzazione del patrimonio collettivo, di beni che appartengono a tutti.

Il Patto per Napoli e il debito del comune di Napoli, la somiglianza con Le mani sulla città

Il Patto per Napoli prevede l’erogazione alla città di 1 miliardo e 231 milioni di euro nei prossimi 20 anni, sottoposte a condizionalità gravose, l’accordo prevede infatti che il Comune metta in atto diverse misure,

per risanare il bilancio in rosso del comune, altissimo, che deriva in gran parte dal debito contratto dal commissariamento ai rifiuti, ma anche da tasse, multe e canoni che l’ente non ha riscosso, ma i debiti non derivano solo dai comuni cittadini in difficoltà, Manfredi, ex rettore della Federico II è tra i debitori illustri del comune di Napoli, con un debito milionario dell’ateneo campano, ma i grandi evasori sono anche le  banche, i grandi alberghi di lusso e sin anche le suore. Sono 285 gli enti pubblici e i privati che hanno debiti, Imu e Tari ( 2012- 2020) per 154 milioni. Anche la questura deve versare soldi alla città, mezzo milione per la Tari. Debitore è l’ente Mostra, che ha un contenzioso di 4,8 milioni. Poi si contano circoli, Asl, cliniche private, il Cnr, il Conservatorio. E anche supermercati, banche…

I debiti delle emorragiche stagioni commissariali, per le innumerevoli, disastrose “emergenze”: l’emergenza rifiuti, quella del dissesto idrogeologico, l’emergenza viabilità e quella di Bagnoli, ma prima di tutte, la madre di tutte le emergenze, l’emergenza terremoto, e l’emergenza ricostruzione post terremoto del 1980 che, da sola, pesa per 200 milioni sul bilancio.

A incidere pesantemente sul bilancio almeno per un altro ventennio ci sono anche la fraudolenta finanza creativa e i derivati.

Ma il debito deriva anche e soprattutto dai tagli.

Negli ultimi venti anni lo Stato centrale ha pensato bene di riversare sugli enti locali il peso del debito pubblico, sottraendo, negli anni oltre venti miliardi ai comuni, ossia ai cittadini, facendo pagare agli incolpevoli il peso di un debito che pesa per causa loro solo 1,8% del debito complessivo.

Ma il debito non deriva solo dal debito iniziale, ma soprattutto, dai i tassi di interesse che Cassa Depositi e Prestiti ha imposto agli enti territoriali, fino al 4/5 per cento, quando i mutui erano bassissimi ovunque e alla luce del fatto che lo stato che detiene la massima parte del debito pubblico paga di interessi solo l’1%.

La Consulta Audit napoletana

La Giunta precedente ha lavorato molto sul debito, con il supporto dei movimenti sociali, e si è opposta al debito già nell’aprile del 2018. Frutto del lavoro della Consulta di audit napoletana, con il Comitato per l’abolizione del debito illegittimo e la rete Attac Italia, è stato un atto politico e amministrativo importante che ha messo in discussione il debito, producendo una delibera sulla cancellazione di una parte del debito approvata il 24 aprile 2020 dalla Giunta napoletana.

Fu un atto importante e delicato. Una presa di posizione contro le politiche di austerità che strozzano gli enti locali da decenni, importante esperimento di democrazia partecipativa -il primo in Italia- per una nuova finanza pubblica locale e nuovo modello economico degli enti territoriali. Un’esperienza che ha avuto precedenti illustri, come la Commissione per il debito in Grecia e i comitati per l’Audit in Ecuador e prima ancora in Messico.

Grazie ad una norma che abbiamo spinto nel decreto Milleproroghe a fine 2019, in parlamento, si è riusciti a respingere parte del debito riaccollandolo allo Stato, alla fine è stato varato anche il decreto attuativo, ora i comuni si dovranno attivare e fare la loro parte presentando domanda.

Ma naturalmente la possibilità della rinegoziazione dei tassi con Cdp non basta. Pende sulla testa del patrimonio pubblico, collettivo dei napoletani il “piano delle alienazioni immobiliari”, ossia di quella parte di patrimonio immobiliare pubblico che era stato messo a garanzia del bilancio cittadino, la 

Consulta e gruppi di cittadini e movimenti hanno provato e provano ad opporsi per arrestare il processo di svendita della città.

Ma poi è arrivato Manfredi, uno dei tanti creditori milionari del comune, che ancor prima della campagna elettorale ha preteso l’impegno dello Stato per Napoli. Il patto per Napoli, ribattezzato il “pacco” per Napoli.

Il “piano delle alienazioni immobiliari”

Arriveranno a Napoli 1 miliardo e 231 milioni di euro nei prossimi 20 anni (fino al 2042), erogati in tranche entro il 31 marzo di ogni anno. In cambio, però, il Comune è impegnato, con atto privato, a rispettare condizioni imposte a discapito dei beni comuni: dovrà fare alcune riforme e dovrà mettere in campo una serie di misure per portare soldi alle casse dell’erario cittadino, come l’aumento dell’addizionale Irpef dello 0,2% e la nuova tassa di imbarco all’Aeroporto di Capodichino di 2 euro a partire dall’anno prossimo, e ciliegina sulla torta, dovrà provvedere senza remore 

alla valorizzazione e alienazione del patrimonio pubblico, che si attua attraverso un piano definito con la società Invimit.

Ciò che accadrà a Napoli nei prossimi anni, sarà qualcosa di molto simile a quanto accaduto a livello nazionale negli anni ’90. Ovvero, la svendita dei gioielli di famiglia per salvare le casse pubbliche.

Abbiamo visto con questa logica di mercato, privatizzare, o in altri casi ridurre enormemente la proprietà statale, aziende pubbliche e settori strategici. Per uno smembramento del tessuto finanziario ed industriale di quella Italia che negli anni ’80 ci aveva portato benessere e diritti.

“Le mani sulla città”: l’anniversario di un film che apre ad una riflessione

Il tutto, del resto, fu anticipato da Mario Draghi nel famoso discorso sul Britannia. Ed è stato ancora una volta Draghi che ha spinto la svendita sotto ricatto di Napoli, con un “patto” tramite il quale il governo millanta di voler tenere il Comune partenopeo in vita, mentre nei fatti lo sta privando dei suoi beni, del patrimonio collettivo, fatto di beni materiali e immateriali.

Si scrive valorizzazione e si legge alienazione, vendita, svendita del patrimonio pubblico, cessioni in concessione ai privati.

L’elenco dei beni di cui Napoli dovrà disfarsi, sono 600 immobili tra vendibili e assegnabili, tra cui anche pezzi importanti della storia architettonica partenopea come la Galleria Principe di Napoli; il Palazzo Cavalcanti; il complesso del Carminiello a Piazza S. Eligio; l’ex deposito ANM di Posillipo; le caserme della Polizia di Stato in via Medina e quella della Guardia di Finanza in via Quaranta; l’ex Villa Cava a Marechiaro.

Ma l’affaire potrebbe coinvolgere anche pezzi pregiati della città, come il Castel dell’Ovo e il Maschio Angioino. Due dei tre castelli, insieme a Castel Sant’Elmo al Vomero, più importanti della città. Infatti, come denuncia Marina Minniti dell’Associazione “Mi Riconosci?”  Castel dell’Ovo sarà affidata ai privati, per la guardiania, le visite guidate e la manutenzione (…) non si potrà più entrare gratuitamente, saranno installati dei tornelli e ci sarà il biglietto di ingresso. Per il Maschio Angioino ci sarà l’aumento del biglietto di ingresso che attualmente è di 6 euro.

E c’è già un precedente, quello del Cimitero delle fontanelle, che Manfredi ha già affidato ai privati. Una struttura del 1600, carica di mistero nella sua suggestiva unicità spettrale, rimasta chiusa più volte nel corso della sua travagliata storia.

Parliamo di beni culturali strategici per la città, di Patrimonio collettivo, che NON può essere alienato. Perché appartiene a tutti e alle future generazioni, ne siamo solo custodi, immeritati.

Sulla definizione dei beni comuni e la Costituzione

Sarebbe bene fare un punto di chiarezza definitivo sui beni comuni; sono in corso varie querelle anche molto accese che non aiutano. Credo che un punto di chiarezza lo abbia fatto l’associazione “Attuiamo la Costituzione” del prof. Paolo Maddalena, proposta scaturita in un disegno di legge che presentammo in Senato nella scorsa legislatura.

La proposta di modifica legislativa si centra sulla necessità giuridica di riportare il concetto di beni comuni nell’ambito Costituzionale e sottrarlo alla interpretazione data dal codice civile di stampo albertino e precedente la Costituzione: per cui la proprietà è pubblica o privata.

Lo Stato in Costituzione passa da essere Stato persona a Stato Comunità, e questo è un dato fondamentale, la proprietà dei beni non appartiene al singolo ma alla comunità e l’ente non ne è “proprietario” che costituiscono il patrimonio collettivo, ossia di tutti, ma ne è solo custode.

Il mancato aggiornamento del concetto proprietario di stampo albertino ad una interpretazione costituzionalmente orientata ha permesso al sistema neoliberale di attuare svendite e privatizzazioni in contrasto con il dettato Costituzionale.

Così avviene che si attuino privatizzazioni di fatto di demanio pubblico, come ad esempio le ex aree ferroviarie dismesse, dove si stanno progettando centri commerciali, parcheggi e palazzine, o come accade da anni con il demanio pubblico delle spiagge, occupate da concessioni che di fatto sono privatizzazioni, e come avverrà con la gestione dei beni pubblici culturali dati in concessione a fondazioni culturali.

Attribuire a Fondi di Investimento come Invimit e a Fondazioni culturali i nostri beni, vuol dire assoggettare la proprietà collettiva dei napoletani alle logiche privatistiche di un consiglio di amministrazione.

Non possono essere venduti i beni comuni, né dati in concessione, anche perché la svendita del patrimonio collettivo, naturale e culturale non può che generare impoverimento e privazione dei diritti fondamentali

Tornare all’uso civico dei beni comuni

Si deve tornare all’uso civico dei beni comuni alla valorizzazione collettiva, di cui Napoli è sempre stata fucina.

Bisogna capire che tipo di città vogliamo immaginare per il futuro, comprendere che è in atto una violenta gentrificazione che causa scomposta turistificazione, incontrollata, che la città sta perdendo la propria identità culturale e sociale.

Ma quello che è davvero necessario è capire che futuro vogliamo costruire perché va costruito oggi per domani e quello cui assistiamo non ci rassicura.

Come il fatto che questa amministrazione, in pieno Global Warming, con 523 ppm di CO2 in atmosfera come nel Pliocene, pensa ancora di risolvere i problemi di mobilità dei cittadini costruendo parcheggi all’interno della città, a Piazza Vittoria, Piazza degli Artisti, via Ruggiero, e via Cerlone, aumentando quindi il numero di veicoli privati in città.

In una città, tra l’altro, poco adatta a scavi, dato che soffre di gravi problemi di dissesto idrogeologico, come i continui crolli testimoniano troppo spesso.

È stata fatta una lettera aperta al sindaco per questo, dai movimenti e le associazioni campane.

Questo tipo di scelte insieme al parallelo consumo di suolo, in atto in città con disposizioni estremamente gravose, sono all’origine dei molti problemi di microclima, di inquinamento e di disservizio. Pe questo in moltissime città europee stanno rivedendo il modello urbano, puntando sempre di più all’incremento delle aree verdi, al potenziamento di sistemi di trasporto sostenibili, alla previsione di vaste ZTL e aree pedonali, con la prospettiva di realizzare città a 15 minuti, in modo da ridurre notevolmente la necessità di spostamenti e rendendo maggiormente vivibili le città.

A Napoli si fa esattamente il contrario in un delirio antistorico e autodistruttivo.

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