L’Italia è finita: l’autonomia differenziata è legge

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La notte più buia

Come abbiamo raccontato con un altro nostro articolo, al termine di una lunga e convulsa notte, che decreta anche quella del Paese, la Camera dei Deputati,  con 172 voti favorevoli, 99 contrari ed un astenuto,  ha approvato il disegno di legge  Calderoli n.1665 del Governo per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

Il ddl Calderoli era stato già approvato al Senato il 23 gennaio scorso; con il voto di oggi della Camera è, quindi, legge dello Stato ( o meglio, di quello che ne rimarrà e che chiamiamo ancora così).

Il Re è nudo!

E’ la fine del nostro Paese, la fine dell’Italia, annunciata ed auspicata da quarant’anni dalla Lega (Nord) e che si è consumata con il voto di una maggioranza, blindata dentro i suoi egoismi di poltrona, con il contributo di tanti Deputati e Senatori, per di più eletti nelle regioni meridionali e che hanno, deliberatamente, scelto di sposare il progetto della peggior Lega di Miglio, quello della “Secessione”.

E secessione sarà!

Lo scalpo del Sud è conquistato dalla Lega, che, nel frattempo, dà il via libera alla riforma del “Premierato”, voluta fortemente da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia. La coincidenza dei tempi non lascia dubbi sul significato del voto e sulle dinamiche  parlamentari ed istituzionali messe in campo.

Stamattina c’è il sole ma, a ben guardare, è ancora notte fonda!  

E così sarà per il futuro del Mezzogiorno!

Badate bene, verranno giorni ancora più bui di oggi per i meridionali, quando questi, persuasi dal canto ingannevole delle sirene ed addomesticati dalle affilate  armi  di distrazione di massa messe in campo dai partiti e dalle potenti lobby del Nord, avranno  contezza di un tradimento avvenuto.  

Già era nata male, 163 anni fa, quest’Italia; con un’annessione del Mezzogiorno, spacciata per una (finta) Unità.

E’ finita peggio!

Perché nel frattempo il Sud è stato progressivamente spogliato di tutte le sue ricchezze, da quelle materiali fino a quelle umane, facendo partire le emigrazioni di massa, la prima iniziata, non a caso, dopo la finta Unità d’Italia. Allora furono solo i Piemontesi; oggi, con loro i  fieri Lumbard (del ce l’ho duro), i Veneti, gli Emiliani  a considerare il Sud una colonia, una palla al piede.

La Lombardia di Fontana, il Veneto di Zaia e l’Emilia di Bonaccini sono giustamente in festa; lo hanno detto e ripetono ancora. Hanno portato, finalmente, a casa la vittoria e le bandiere della Lega, della Padania  e di Venezia sono state esibite e sventolate in Aula a Montecitorio con ritrovato orgoglio.

Che tristezza!

A che prezzo l’Italia e il Sud pagherà tutto questo, lo vedremo presto, in termini di ripartizione di risorse, di  prestazione di servizi e trasferimento di funzioni, con un inesorabile  aumento delle diseguaglianze. Non ci saranno più divari territoriali all’interno di uno stesso Paese, ma solo perché non ci sarà più un unico  Paese, bensì almeno due o più macroregioni autonome: da un lato il Grande Nord e sul fronte opposto un Sud  disperato, a cui viene staccata la spina, dopo avergli preso tutte le risorse e soffocatolo, fino all’ultimo respiro.

Il fatto singolare e davvero avvilente è anche il silenzio assordante che sulla questione c’è stato nel Paese. Una legge così importante e divisiva per le persone, i territori e i destini di tutti noi, non è mai stata posta al centro dei dibattiti nazionali  e neppure ha avuto il giusto spazio nei talk show televisivi e sulle pagine delle grandi testate nazionali  (tutte con la testa al Nord, naturalmente!).

Calderoli, del resto, ha sempre dichiarato di essersi mosso nel solco della Costituzione. Effettivamente, può – da par suo – ben  dirlo!

E’ stata, infatti, la scriteriata e folle riforma del Titolo V° della Costituzione del 2001, voluta dal Partito Democratico di allora, che ha aperto un’autostrada per le ambizioni degli egoismi leghisti, creando un incolmabile vulnus nel dettato costituzionale. Poi è stato sempre il PD di Gentiloni nel 2018, quando il 28 febbraio, solo 4 giorni prima delle elezioni politiche, stipulò  le Intese (il cui testo è rimasto per lo più secretato) tra il Governo e la Regione Emilia Romagna di Bonaccini e Schlein (si proprio lei che oggi guida il PD), la Lombardia di Maroni e il Veneto dell’indomito Zaia, che oggi giustamente cantano all’unisono  vittoria (Zaia addirittura brindando con la sua “gente”, parlando della giornata di oggi come: “Alba di un giorno storico”).

La Lega (Nord) ha, dunque, colto l’occasione per coronare di successo l’antico progetto di Pontida.

Eppure nella 1ª Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, così com’era avvenuto al Senato, tutti coloro che sono stati auditi, tra cui chi scrive,  (gli economisti, i costituzionalisti, la Banca d’Italia, Confindustria, le associazioni sindacali e datoriali) hanno avvertito sonoramente il Governo e il Parlamento del pericolo di una riforma, capace di spaccare per sempre  il Paese e la coesione sociale, una legge costruita ad invarianza di spesa, senza alcuna garanzia per il finanziamento dei  LEP, senza la previsione di un fondo perequativo straordinario, che non fosse quello del Fondo delle Politiche di Coesione, già ad appannaggio del Mezzogiorno.

La legge, quella approvata oggi per  autonomia differenziata, secondo la maggioranza dei costituzionalisti, appare andare ben oltre le previsioni ed il perimetro di legittimità costituzionale, rischiando seriamente di compromettere la coesione nazionale ed il futuro stesso del nostro Paese.

La legge Calderoli e il suo articolato

Dimostrando di non avere alcun pregiudizio di sorta, vogliamo qui brevemente analizzare in concreto l’articolato della Legge Calderoli per capirne lo spirito e gli effetti che potrà determinare.

A comma 2 dell’art.1 della legge si prevede che l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’art.116, terzo comma della Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e sociali è consentita subordinatamente alla determinazione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (LEP). Le materie a cui fa riferimento il terzo comma dell’art.116 sono tutte quelle della potestà legislativa concorrente, di cui al terzo comma dell’art.117, in numero di 20, e tre delle materie della potestà legislativa esclusiva dello Stato, elencate all’art.117, secondo comma.

 In sostanza, per questa via, tutte le materie che attengono più strettamente ai diritti civili e sociali della potestà legislativa (concorrente ed esclusiva) dello Stato possono essere trasferite alle Regioni in base alle intese che si potranno stipulare (fra lo Stato e ciascuna Regione che ne faccia, eventualmente, richiesta) con il procedimento delineato dal successivo art.2  della legge.

L’asimmetria proposta nella ripartizione  di funzioni già di per sé determina un quadro complessivo di criticità, difficilmente governabile,  in quanto – tra regioni che chiederanno l’intesa per certe funzioni e non per altre, tra quelle che ne  chiederanno di diverse o tutte, tra quelle non interessate a stipulare alcuna intesa – si avrebbe una realtà talmente frammentata e composita, con conseguente grave lievitazione di costi di gestione delle tante nuove organizzazioni e strutture burocratiche da istituire, circostanza che non  appare minimamente considerata e stimata dalla legge che, anzi, all’art.9 prevede l’invarianza finanziaria.

    Dunque, con l’autonomia differenziata attraverso le intese potrebbero essere richieste dalle Regioni materie o ambiti di materie  di tale rilevanza che, di fatto, svuoterebbero lo Stato centrale di ogni concreta prerogativa legislativa, che verrebbe limitata a pochi ambiti di materie:  politica estera e ai rapporti con la UE, all’immigrazione, ai rapporti con le confessioni religiose, alla difesa, all’ordine pubblico, alla previdenza sociale, alla moneta e a poche altre materie o ambiti residuali.  

    Al contrario, alle Regioni, a seguito della determinazione dei LEP e dei costi e fabbisogni standard, potranno essere assegnate quelle materie  elencate al terzo comma dell’art. 3 del disegno di legge: la tutela della salute, l’istruzione, la ricerca scientifica e l’innovazione,  l’ambiente, il governo del territorio, la tutela e sicurezza del lavoro, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, l’ordinamento della comunicazione, la  produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, i  porti e aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali e organizzazione di attività culturali.     Inoltre, sempre alle Regioni, anche senza la determinazione dei LEP, sulla base della semplice stipula di intese, ai sensi dell’art.4 , comma 2,  sarebbero attribuite    anche quelle  relative a materie o ambiti di materie diversi da quelli appena elencati: rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni, commercio con l’estero, protezione civile, professioni, previdenza complementare ed integrativa, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

 Il  trasferimento di funzioni

La vera “polpa” delle materie e delle connesse funzioni che si propone, in tal modo, di trasferire ai sensi del successivo art.4 del ddl, andrebbe alle Regioni, relegando al margine il ruolo dello Stato, che – a questo punto – non avrebbe più alcuna significativa funzione e competenza da esprimere negli ambiti dei diritti civili e sociali. Cosa ancor più grave,  è che questo accadrebbe,  peraltro, senza alcuna previsione economica circa la sostenibilità dell’invocata riorganizzazione delle funzioni.

Se tutte le autonomie territoriali ne facessero richiesta, avremmo 21 diversi sistemi  autonomi di Stato-Regione, con una propria burocrazia  che, se potrà liberamente riorganizzarsi e ristrutturarsi, non potendo contare su alcuna economia di scala ed unitarietà d’indirizzo, avrà costi esorbitanti e, probabilmente, insostenibili per ciascuna autonomia territoriale, oltre a confliggere apertamente con i sistemi di  altre autonomie e con quella dello Stato centrale con cui dovranno necessariamente relazionarsi per la gestione di servizi comuni e per quelli (in pratica tutti) di portata  e dimensione sovraregionale (si pensi ai trasporti, alle reti di comunicazione, alle grandi infrastrutture, all’energia, all’ambiente, ecc.), che non possono essere confinati nell’ambito territoriale di una singola regione.

Il solo pensare, ad esempio, che per una grande rete di comunicazione nazionale, che attraversa più territori, un pezzo di essa lo decida una Regione, un altro pezzo un’altra Regione in altro modo e così via, appare cosa davvero assurda.

Con il trasferimento delle funzioni, nei termini prospettati dalla legge sull’autonomia differenziata, la sovranità dello Stato sarebbe progressivamente sostituita, di fatto, da quella delle Regioni; si avrebbero delle Regioni-Stato entro gli stessi confini nazionali, con la possibilità per gli ambiti territoriali più omogenei di creare delle macro-regioni che determinerebbero una rapida frammentazione e disgregazione del Paese e della sua comunità.

La nascita di una macro regione: il Grande Nord

Il passo successivo delle Regioni-Stato, create sin da subito con la procedura dell’art.4, 2 comma della Legge  Calderoli, sarebbe quello delineato dalla stessa Costituzione all’art.117 , 8 comma che, così recitando: ”La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni”, aprirà, rapidamente e legittimamente, la strada ad intese con altre Regioni, con semplici leggi regionali senza l’intervento dello Stato, per realizzare organi comuni, come macro-regioni.

In questi termini, sarà allora agevole e conveniente istituire  ambiti più vasti, costituiti da più regioni contermini, caratterizzate da omogeneità economica e sociale, e, quindi, la concreta possibilità di una grande macro- regione del Nord (che qualcuno ancora oggi chiama il Grande Nord) con un nuovo modello di sviluppo industriale, non più articolato sulle linee del vecchio triangolo Milano/Torino /Genova, ma su quelle di un’area più vasta (forse un quadrilatero o un pentagono, che si spingerebbe ad est, fino a Tieste  e un po’ più a sud, forse fino a Firenze).

Evidentemente, su un fronte diverso nascerebbero di conseguenza ulteriori aggregazioni tra le altre Regioni (forse anche una macro-regione del Sud), in contrapposizione alla/e prima/e per la tutela dei propri interessi che vedrebbero sempre più pregiudicati.

A questo punto, si sgretolerà definitivamente quello che rimane dell’originaria unità del Paese.

In una situazione di questo tipo, alcun presidenzialismo o premierato sarebbe più in grado di salvare un Paese, diviso e disgregato, sul piano territoriale, economico e sociale.

Si badi bene che le Intese, una volta stipulate, durano 10 anni e  sono – di fatto – irreversibili; potranno essere ridiscusse solo in presenza di una comune volontà a farlo da parte dello Stato e della Regione interessata.

Tale prospettiva dal punto di vista strettamente economico e geopolitico, non pare- peraltro – di alcuna utilità, neppure per le regioni più ricche, atteso che, già da molti anni, nel mondo prevalgono i grandi sistemi economici, rappresentati dai grandi players che stabiliscono le regole del gioco, lo conducono ed  impongono di fatto condizioni di produzione, consumi, stili di vita e finanche assetti politici ed istituzionali. Si pensi come già l’Unione Europea, con i suoi 27 Stati membri, abbia difficoltà ad interagire  efficacemente sugli scenari internazionali  con colossi, come gli stati Uniti, la Cina, la Russia, l’India. La stessa Italia ha difficoltà a farlo in Europa e nel mondo; per cui la prospettiva che, grazie all’autonomia differenziata, qualche macro-regione italiana si possa agganciare e stare alla pari con i grandi players mondiali, è davvero surreale.

    Con la regionalizzazione della scuola, ad esempio,  si corre il rischio di avviare un vero e proprio processo di disgregazione del sistema nazionale dell’istruzione: programmi diversi a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriali e meccanismi di finanziamento differenziati. L’istruzione è anche la voce più rilevante dal punto di vista finanziario: circa 5 miliardi di euro in Lombardia e poco meno di 3 miliardi in Veneto, una quota compresa tra il 15 e il 18% dei rispettivi bilanci regionali.

Secondo la SVIMEZ, con l’autonomia differenziata si rischia di adattare l’intensità dell’azione pubblica alla ricchezza dei territori, prevedendo  maggiori investimenti nelle aree che se li possono permettere, pregiudicando la funzione principale della scuola: «fare uguaglianza».

Sul tema scuola, si segnala la presa di posizione del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, che in una recente intervista concessa ai giornali  qualche mese fa, ha proposto di dare più poteri alle Regioni nell’organizzazione scolastica ed incentivare i candidati docenti a spostarsi al Nord, attraverso il riconoscimento di bonus economici per viaggiare e trovare casa in affitto a prezzi calmierati, per far fronte alle carenze di organico nelle scuole settentrionali.

La misura  proposta avrebbe  lo stesso impatto e andrebbe nella stessa direzione  dell’offerta ai docenti di contratti integrativi, posti a carico delle Regioni che stipuleranno le intese, che da qualche tempo si paventa, e che se si somma a quest’ultima, oltre a creare squilibri e discriminazioni nel settore e forse avere anche qualche profilo di incostituzionalità,  determinerebbe una vera e propria fuga dei docenti meridionali verso il Nord.

Eppure Valditara è lo stesso ministro che, solo nel novembre del 2022, con comunicazioni ufficiali dichiarava pubblicamente di non considerare la “regionalizzazione” della scuola all’ordine del giorno.

Tra gli effetti dell’autonomia differenziata e tra le probabili richieste delle Regioni più ricche che chiederanno l’intesa con lo Stato, si parla – infatti – da tempo della possibilità di stipulare contratti integrativi, oltre che nel settore istruzione, anche in quello sanitario. Se ciò accedesse davvero, le conseguenze sarebbero dannose e dirompenti per il Mezzogiorno, con la fuga di massa, da qui, di docenti ed operatori del settore sanitario.  Il gravissimo spopolamento già in atto, diventerebbe allora inarrestabile, determinando una vera e propria desertificazione sociale ed economica del Mezzogiorno.

L’intervento di Mattarella, la Corte Costituzionale e il referendum: l’ultima speranza

Non ci resta che sperare nel Presidente Mattarella, per un possibile rinvio alle Camere della legge,  e nel probabile intervento della Corte Costituzionale, per le numerose eccezioni di incostituzionalità che sono state già sollevate.

Anche l’ipotesi del Referendum resta in piedi, ma questa non è immediata, e, secondo i costituzionalisti, parrebbe pure di difficile praticabilità; comunque, la consultazione referendaria rischierebbe di legittimare il progetto leghista, se si pensa che solo il 34% della popolazione italiana risiede al Sud.

L’Italia, come finora l’abbiamo conosciuta, con la legge Calderoli  è finita!

Domani ai campionati europei di calcio gioca la Spagna e noi non sappiamo più per chi tifare (qualcuno, probabilmente, già  lo farà per la Padania).

Da domani, forse, fra le bandiere tricolori sventolate allo stadio, vedremo anche qualche altra bandiera: in tinta unica (verde) con la rosa celtica.

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