Presidenziali Usa: si attende la decisione della Corte Suprema sulla candidabilità

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La Corte Suprema degli Stati Uniti sta decidendo un caso che stabilirà se Trump potrà cercare di divenire il candidato dei Repubblicani nelle elezioni per la nomina del Presidente della Repubblica, oppure no. Si può forse dire che sta probabilmente decidendo chi sarà l’uomo che sarà il vertice e il rappresentante dell’impero americano dal termine della presidenza Biden, se il partito democratico non troverà un candidato all’altezza che possa raccogliere il consenso e il voto degli Stati Uniti stessi.

La Corte Suprema del Colorado, infatti, ritenendo di avere la competenza di decidere al riguardo, il 19 dicembre 2023 ha accolto la causa indetta da alcuni elettori, tra i quali Norma Anderson, nei confronti di Jena Griswold, Secretary of State del Colorado, chiedendo non consenta che l’ex Presidente Trump partecipi alle primarie repubblicane e contestando che ella avrebbe commesso una violazione del suo dovere o una negligenza o un altro atto illecito consentendo lui di partecipare al ballottaggio; gli attori lo chiedevano adducendo che Trump incorrerebbe nei limiti e divieti stabiliti dal terzo comma del quattordicesimo emendamento della costituzione degli Stati Uniti (uno di quelli emanati subito dopo alla fine la guerra civile di secessione), che avrebbe valore direttamente esecutivo e detta che 

<<Nessuno potrà essere Senatore o Rappresentante nel Congresso, o elettore per il Presidente e il Vice-Presidente o potrà tenere qualsiasi ufficio, civile o militare, presso gli Stati Uniti o presso qualsiasi Stato, se, avendo previamente prestato giuramento – come membro del Congresso o come funzionario degli Stati Uniti o come membro del Legislativo di uno Stato o come funzionario amministrativo o giudiziario in uno Stato – di difendere la Costituzione degli Stati Uniti, abbia preso parte a un’insurrezione o ribellione contro di essi o abbia dato aiuto o sostegno ai loro nemici. Ma il Congresso può, col voto dei due terzi di ciascuna Camera, rimuovere questa causa di interdizione>>.

Affermavano che l’ex presidente degli Usa non poteva divenire candidato, men che mai eleggibile, perché sarebbe stato responsabile delle manifestazioni e dei tumulti seguiti alle precedenti elezioni, la cui validità egli negava, e avrebbe anche incitato le masse a partecipare all’attacco al Campidoglio il 6 di gennaio, rendendosi così “engaged in insurrection”. Il 28 dicembre 2023 la segretaria di Stato del Maine ha annunciato che Trump non sarebbe eleggibile alla presidenza, anch’essa citando la Sezione 3 del 14° emendamento.

Il Colorado Republican Party ha impugnato innanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti la sentenza della Corte del Colorado contestandone la incostituzionalità; lo stesso ha fatto Trump, che era intervenuto nella causa, rilevando anche che <<negli ultimi mesi, sono state intentate più di 60 cause legali o contestazione amministrative nel tentativo di impedire al presidente Trump di apparire alle primarie presidenziali o sulla scheda elettorale delle elezioni generali.>>

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha quindi accettato di esaminare e decidere il caso Trump V. Colorado, in realtà Trump v. Anderson, o, per intero, Donald J. Trump v. Norma Anderson, (No. 23-719). L’8 febbraio si è quindi tenuta l’udienza orale, che Wikipedia riassume così (en.wikipedia.org/wiki/Trump_v._Anderson):

Jonathan F. Mitchell ha rappresentato Trump durante le udienze orali, gli elettori che hanno presentato la richiesta originale sono stati rappresentati da Jason Murray e Griswold da Shannon Stevenson presso l’ufficio  del procuratore generale del Colorado. Secondo gli osservatori, durante le discussioni orali i giudici di entrambe le parti ideologiche sono apparsi scettici sull’affermazione che i singoli stati possano determinare l’ammissibilità ai sensi del 14° emendamento. Invece, essi hanno generalmente posto domande che indicavano che il 14° emendamento richiedeva al Congresso di prendere l’iniziativa di questa determinazione. Il giudice Kavanaugh ha riportato un caso del tribunale distrettuale della Virginia del 1869, In re Griffin, stabilito un anno dopo l’approvazione del 14° emendamento, dal  giudice Salmon Chase, che agiva nella sua qualità di giudice d’appello, in cui la corte ha stabilito che un divieto insurrezionalista contro un giudice non poteva essere dichiarato a meno che il Congresso non approvasse una legge. I giudici hanno sollevato poche domande relative agli eventi del 6 gennaio.

L’espressione giudici di entrambe le parti ideologiche sembra voler tener conto delle diverse nomine dei 9 giudici attualmente in carica, 6 nominati da presidenti repubblicani, tre dei quali da Trump, 3 da Obama e Biden, e del fatto che nelle nomine i presidenti prediligono naturalmente giuristi che abbiano manifestato nella loro vita un pensiero più prossimo al loro, rispettivamente a quello conservativo o a quello più liberal.

Le anticipazioni circa la Corte Suprema sembrerebbero dunque indicare che almeno la maggioranza dei giudici riterrebbe la sentenza contraria alla Costituzione. 

Il New York Times ha notato in particolare che il presidente della Corte Suprema John G. Roberts junior nella discussione ha posto una serie di domande che riflettevano quello che sembrava essere un consenso emergente: che il 14° emendamento non aveva lo scopo di consentire ai singoli Stati di determinare se un candidato fosse ineleggibile.

Circa la Corte Suprema interessante la previsione posta nel The Guardian, da Moira Donegan, “Opinion columnist covering gender and politics”: << Alla fine delle discussioni, era chiaro: ciò che i giudici scriveranno sarà una decisione 9-0 o 8-1 (solo Sonia Sotomayor ha espresso molto dissenso) dicendo che la sezione tre non è auto-applicabile, o comunque che gli stati non possono promulgare provvedimenti attuativi da soli. Arriveranno a questa conclusione non perché l’argomento sia stato proposto in modo persuasivo o per niente dall’avvocato di Trump, Mitchell – non lo era – e non perché sia il luogo in cui il testo li costringe ad arrivare – non lo è. Avranno invece fabbricato questo ragionamento di sana pianta, perché li tira fuori da una questione scomoda: la questione se le protezioni sostanziali della Costituzione per la democrazia possano sopportare lo stress che Trump applica loro.>>

La valutazione espressa dalla giornalista, la sua visione giuridica del tema e la sua opinione del perché la Corte è presumibile deciderà l’annullamento, non sembrano tener conto adeguatamente del fatto che il tema, quantomeno ove riguardi le elezioni del presidente degli Stati Uniti, oggettivamente non sembra possa essere di competenza dei singoli stati, ma di competenza dell’intero Congresso. Sembra infatti ragionevolmente certo che i Fondatori nel costituire gli Stati Uniti, prima, e i costituenti del periodo successivo alla grande guerra civile, poi, non avrebbero voluto che ogni singolo stato dell’unione potesse decidere in maniera autonoma, e quindi potenzialmente diversa rispetto ad altri, circa i principi fondamentali e i presupposti e requisiti che determinino la stessa nomina del presidente della repubblica, degli Stati tutti, chi avrebbe potuto essere eletto nel più alto seggio, a quel ruolo che determina l’unificazione di tutti gli Stati e lo esprime; e sembra anche che questo possa essere tratto anche dalle precedenti decisioni della stessa Suprema Corte; cosicché per decidere in favore della Corte Suprema del Colorado la Corte dovrebbe distaccarsi da principi espressi nei precedenti. Per questo le asserzioni della giornalista mi sembrano errate. È importante però che essa stessa, evidentemente nemico dichiarato di Trump (e della Corte Suprema esistente, anche perché è quella che ha riconosciuto che l’aborto in sé non è un diritto negli Stati Uniti), ritenga che non vi sia dubbio che la Corte Suprema annulli la decisione della Corte Suprema del Colorado che impediva l’elezione di Trump; sentenza che, se al contrario non fosse annullata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, sarebbe seguita da altri stati, come già dal Maine, e quindi probabilmente riuscirebbe a impedire la nomina di Trump quale concorrente alla Presidenza degli Stati Uniti.

La sentenza dovrebbe uscire presto, prima del 5 marzo, il ‘Super Tuesday’, la più grande giornata di primarie, nella quale si terranno in molti Stati primarie che decideranno di 874 delegati, tra cui il Colorado (che dà 37 delegati).  Trump potrà allora vendersi politicamente l’errore di cercare di impedirgli l’eleggibilità negli stati gestiti dai democratici, in quel caso un bel autogol per quelli, che comunque per conto loro continueranno sicuramente a sollevare il tema dei comportamenti di Trump, contestandone la compatibilità circa il ruolo di presidente.

Aumenterà così ancora la probabilità che egli vinca la nomination, che già appare piuttosto elevata forse il percorso sia ancora lungo e complesso, dal momento che per vincere la nomination nelle primarie un candidato deve raggiungere almeno 1215 delegati. I risultati delle primarie repubblicane già attuate in alcuni stati, Iowa, New Hampshire e Nevada danno tutti i 92 delegati a Trump; già dopo la vittoria in New Hampshire alcuni giornalisti ritenevano che quella fosse solo la conferma di quanto fosse il leader indiscusso del partito, sebbene ne mancasse ancora l’ufficialità.  Il suo principale concorrente, Ron Dennis, governatore della Florida dal 14 gennaio 2019, si è già ritirato, facendo un endorsement a Trump appoggiandolo per la nomination; l’ex ambasciatrice Nikki Haley, altra candidata che finora però non sta ottenendo risultati, rimane invece in gara, presumibilmente sperando che i molti ostacoli e conflitti giuridici posti contro Trump alla fine lo costringano, o lo inducano, ad abbandonare.

I sondaggi attribuiscono a Trump dal 73 al 77% di possibilità di vincere le primarie repubblicane. Chi indica il dato minore, del 73%, gli attribuisce 53 punti di vantaggio rispetto a chiunque, chi prevede il 77% gliene ne attribuisce 60.

Staremo a vedere, con l’interesse che merito il tema riguardante la scelta dell’uomo che rappresenterà, ed in parte gestirà, il potere dell’impero al quale il nostro stato è collegato, dal quale è spesso condizionato, in questo periodo forse mai come prima.

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