Alcuni temi della Questione Meridionale
CentroSud24, coerentemente rispetto alla sua stessa definizione, al suo stesso titolo, sta riproponendo qui temi forti di quella che da sempre si ritiene la questione meridionale; questione che è culturale, sociologica ed economica, prima che giuridico istituzionale ma che naturalmente diviene poi tale. Questione così complessa, anche sotto il profilo sociologico, che determina le perplessità, e le contraddittorietà, che già esprimeva Antonio Gramsci: dopo aver denunciato che “la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole, e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del Settentrione”, (ne La Settimana politica [XV] Operai e contadini, ora in L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci) Egli rilevava infatti (in “Alcuni temi della quistione meridionale”) che “Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro (si capisce che occorre fare delle eccezioni: la Puglia, la Sardegna, la Sicilia, dove esistono caratteristiche speciali nel grande quadro della struttura meridionale). Denunciava così, rilevandone pure le diversità, anche che tale “disgregazione sociale la faceva apparire incomprensibile eppure paradossalmente fondamentale per una comprensione del nord”, e insieme evidenziava le colpe degli intellettuali del mezzogiorno, quale figura di mediazione tra contadini e proprietari terrieri, che facevano si formasse «un mostruoso blocco agrario che nel suo complesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche». Egli, auspicando che venisse lo Stato operaio, pensava che solo tale Stato avrebbe affrontato la questione, come ancora oggi non è stato fatto, e potrebbe essere: esso darà il credito ai contadini, istituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le opere pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, perché è suo interesse avere e conservare la solidarietà delle masse contadine, perché è suo interesse rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, tra Settentrione e Mezzogiorno (così in Operai e contadini, in Ordine Nuovo1919-1920).
Un’analisi, ed un programma, che, a distanza di quasi cent’anni, pur se visti al di fuori del pensiero rivoluzionario allora legato al marxismo, e correlati ad un ambito economico, nel quale diverso è il ruolo sia dell’agrario che del contadino, lascia ancora comprendere quali siano alcuni dei profili culturali, sociologici ed economici del problema, e come sia importante comprendere come quelli si situino nell’attuale contesto.
La rilettura di tali analisi, di tale programma, che in ampia parte già riteneva primari, con l’intervento dello Stato, l’impiego di strutture associative, a partire dalle cooperative, ricorda quale sia stata in Italia il positivo sviluppo dell’economia mista, in particolare dal dopoguerra agli anni ’80, e come possano anco oggi essere importanti analoghi strumenti, in particolare lo sviluppo del ‘Terzo Settore’ dell’economia, settore terzo rispetto all’economia del mercato privato mirante al lucro, e al contempo rispetto al sistema pubblico, mirante all’interesse generale.
Nel sistema, anche della moneta e del capitale sociale pubblico
Anche in questo senso mi sembrano di grande interesse gli articoli pubblicato da CentroSud24 dai professori Vavalli e Davanzati, che mi sembra opportuno rendere oggetto di approfondimento e discussione: il primo, per me in particolare nella parte relativa al tema della natura e del sistema della moneta, il secondo, nell’analisi che porta al tema del capitale sociale pubblico; capitale sociale che io intendo innanzitutto quale “la propensione ad agire nel rispetto di norme di reciprocità e senso di obbligazione allargati alle relazioni impersonali, la cui condizione è un diffuso sentimento di fiducia verso gli estranei. È questa forma specifica di capitale sociale che è deficitaria e che, d’altra parte, viene indicata come strategica per il benessere di una società e per le sue possibilità di sviluppo” (Gaetano Gucciardo, Diseguaglianza e capitale sociale nel Mezzogiorno, 2013). Temi, e limiti, che vanno a mio avviso letti innanzitutto nel contesto della società e della cultura, per rafforzare, col concetto, le prassi del capitale sociale di solidarietà (che deriva dall’appartenenza ad un gruppo) e del capitale sociale di reciprocità (cioè che deriva dalle relazioni sociali e non dall’appartenenza), ed evitando l’errore di proiettarli direttamente nel diverso (pur se connesso) ambito del diritto o, peggio, della mera valutazione morale, se non per le strette immediate relazioni con l’economia, in particolare della collaborazione e dello scambio.
Un’economia civile
Si potrà riscoprire così quel modello dell’economia civile, che è economia della collaborazione, espressione della civiltà e cultura dell’uomo radicate nel mezzogiorno, già studiata e raffigurata nell’illuminismo napoletano e negli scritti di Gaetano Filangieri, Giacinto Dragonetti, definita e raffigurata in particolare da Antonio Genovesi, per il quale il mercato, l’impresa, il commercio, l’economico sono in sé luoghi anche di amicizia, di reciprocità, gratuità, fraternità, infine di giustizia: poiché in natura queste parole giusto, onesto, virtù, utile, interesse non si possono se non istoltamente disgiungere (Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto, 1766), e i rapporti umani si sviluppano proprio nella reciprocità, dal momento che L’uomo è un animale naturalmente socievole: è un dettato comune. Ma non ogni uomo crederà che non vi sia in terra niun animale che non sia socievole. […] In che dunque diremo l’uomo essere più socievole che non sono gli altri? […] [è il] reciproco dritto di esser soccorsi, e conseguentemente una reciproca obbligazione di soccorrerci nei nostri bisogni; così che la reciprocità soddisfa gli istinti umani, 1. Istinto che porta a conservare l’esistenza. 2. Istinto che porta a cercare il comodo. 3. Istinto di distinguersi. (Antonio Genovesi, Lezioni di commercio o sia di economia civile).
Si ritroverà così una visione dell’economia molto prossima alla dottrina sociale cattolica, che la chiesa da sempre aveva promosso ed attuato anche creando ordini, congregazioni e organismi che affrontavano (anche) esigenze economiche, sociali, sanitarie, di formazione, assistenziali (molte eliminate in Italia con le c.d. legge eversive quali il regio decreto n. 3036 del 7 luglio 1866 col quale fu negato il riconoscimento -e di conseguenza la capacità patrimoniale- a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico).
Visione prossima a quanto affermato con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII sulla condizione operaia, del 15 maggio 1891, che ha sistematizzato il pensiero sociale cattolico, ricercando una equidistanza costruttiva sia dal collettivismo totalitario che dal liberalismo individualista, vedendo nella solidarietà un legame fraterno e reciproco esistente tra tutti gli uomini (e così tra tutte le classi sociali) in virtù del naturale e originario vincolo umano, che può spingere ad un associazionismo capace di tutelare soprattutto i più deboli, e a quanto ribadito, ed ampliato, da Benedetto XVI nella Sua Caritas in veritate (29 giugno 2009),
Visione di un’economia che, al contrario di quella che si considera ‘moderna’ (?), non subisce un sostanziale impoverimento a causa della distanza venutasi a creare tra l’economia e l’etica. … (Amartya Sen, Etica ed economia, 1987), da quell’etica che costituisce la struttura stessa del sistema economico e che è parte necessaria dell’economia, come della collettività stessa, tale che senza di un pensiero etico «Uno sviluppo di lungo periodo non è possibile» (Mario Draghi, Non c’è vero sviluppo senza etica , 9 luglio 2009).
Visione di un’economia che, al contrario di quella della concorrenza, o comunque più di quella è aperta alla visione di un benessere dell’uomo, che è tale che «Le misure convenzionali del reddito, della ricchezza e del consumo non sono sufficienti per definire il benessere umano. Devono essere accompagnate da elementi non monetari che rappresentano la qualità della vita.» (Stiglitz et al., 2009, p.19)
Un’ economia più aperta alla mutualità, nella quale gli individui non operano (solo) per il motivo del profitto, come quella promossa da Charles Fourier e espressa nel motto Libertà, uguaglianza, solidarietà, associazione! di quel Pierre-Joseph Proudhon ( istema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria), che già, mentre si allontanava dal materialismo (credendo che “Il lavoro dell’uomo continua l’opera di Dio, il quale, creando tutti gli esseri, non fa altro che realizzare dal di fuori le leggi eterne della ragione. La scienza economica è quindi necessariamente una teoria delle idee, una teologia naturale e una psicologia.” Pierre-Joseph Proudhon, Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria ), e così alla base del marxismo (Karl Marx, Misère de la philosophie. Réponse à la “Philosophie de la Pauvreté” de Proudhon, 1847), mirava ad un sistema dello scambio tra lavoratori-produttori (Pierre-Joseph Proudhon, La capacità politica delle classi operaie, cap. IV: Il mutualismo (1865), ma in realtà alla collaborazione tra tutti i partecipanti alla comunità umana, e prevedeva che, ove non si potesse agire in modo privato e autonomo, si agisse in maniera associativa, così da superare, se non evitare, anche le separazioni tra classi sociali (come noto, subendo la critica di Karl Marx, Il Capitale, in particolare cap.12, e cap. 52, Le Classi, eKarl Marx e Friedrich Engels,L’ideologia tedesca).
Visione di un’economia che innanzitutto è meno prossima alla frequente acritica accettazione della teoria economica classica, o neoclassica “… di un paradigma dominante fondato sulla allocazione ottimale delle risorse attraverso la teoria libero-concorrenziale”, che “impedisce alla scienza di riconoscere gli errori nella struttura del sistema finanziario”, (G. Di Taranto, Capitalismo e mercato. Il default, in Capitalismo prossimo venturo, 2010, pag. 72 ), della economia di mercato, che ignora … i limiti intrinseci all’operare dell’economia di mercato e che poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio (Federico Caffè, Lezioni di politica economica), certo lontana dai modelli di economia del neoliberismo più aggressivo, che a lungo sono stati (e forse sono ancora oggi) main stream, che hanno fatto sì che Al posto degli uomini abbiamo sostituito numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili (Federico Caffè, in Micromega, 1986).
Una economia certo più prossima anche agli insegnamenti del grande Keynes, per il quale finalità dell’economia è limitare, se non eliminare, la disoccupazione, che nel mercato, se lasciato a sé stesso, si può determinare anche per effetto di una carenza di domanda e di una preferenza per la liquidità a scapito del consumo, mentre i prezzi delle merci possono non adattarsi alla nuova situazione, generare sovrapproduzione e, di conseguenza, disoccupazione; fino a condividere l’opinione che la crisi è in ampia parte causata da inadeguata conoscenza e capacità operativa, i quattro punti di elenco cui alcuni ritengono possano ridurre le conclusioni della Teoria Generale, che: “• Le economie possono soffrire, e spesso soffrono, di una generale mancanza di domanda, che porta alla disoccupazione involontaria • La tendenza automatica dell’economia a correggere le carenze della domanda, se esiste, opera lentamente e dolorosamente • Le politiche governative per aumentare la domanda, al contrario, possono ridurre rapidamente la disoccupazione • A volte aumentare l’offerta di moneta non sarà sufficiente a persuadere il settore privato a spendere di più, e la spesa pubblica deve intervenire per raggiungere il livello di rottura“. (V. l’introduzione di Paul Krugman a The General Theory of Employment, Interest, and Money, di John Maynard Keynes, www.pkarchive.org. Mia la rozza traduzione)
Un’economia che comprende il pensiero del Nobel John Nash, che, integrando e modificando il pensiero di Adam Smith (per il quale “il risultato migliore si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé”), ha rilevato come “il risultato migliore si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé e per il gruppo, secondo la teoria delle dinamiche dominanti”. Cosicché sostituisce alla ricerca di un ‘ottimo di Pareto’, ovvero ad una situazione nella quale, indipendentemente dalla specifica allocazione delle risorse, non sarebbe possibile trovarne un’altra che porti ad un incremento della ricchezza di alcuni senza sottrarre ricchezza ad altri, ricerca e situazione di fatto impossibile socialmente, per la diversità degli interessi dei singoli, spesso contrastanti tra loro, invece pone la ricerca di un possibile equilibrio di Nash, rispetto al quale nessuno dei soggetti della comunità economica coinvolta ha interesse ad essere l’unico a cambiare.
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