Ricordare è importante. Sempre. Nel giorno della memoria, è dovere ricordare tutti i genocidi della nostra storia, soprattutto contemporanea. Il genocidio del popolo ebreo, ovviamente. Così come quello degli armeni. Fino ad arrivare a quello della comunità palestinese, come lasciato intendere dalla Corte dell’Aja, che ieri ha ordinato a Israele di “prevenire atti di genocidio”.
Un genocidio a cui stiamo partecipando tutti, Italia compresa, legittimando di fatto l’operato atlantista. Probabilmente, con Trump al potere le cose sarebbero andate diversamente, ma questa è un’altra storia. In realtà, si attende col fiato sospeso l’intervento di alcuni paesi arabi, che potrebbero riportare un po’ di ordine nel Mar Rosso, evitando ulteriore spargimento di sangue e pesantissime ricadute economiche a largo delle coste europee (che fanno comodo agli “alleati”).
Ovviamente, la pacificazione non può che passare da una mediazione tra gli Stati belligeranti, ridimensionando, magari annullando, anche il potere di Hamas che, è bene ricordarlo, è pur sempre una realtà terrorista che va contrastata e rasa al suolo. Ma non certo col sangue delle donne e dei bambini palestinesi
Ricordare i genocidi della nostra storia: l’eccidio del popolo meridionale in occasione dell’Unità d’Italia
In ogni caso, ed entriamo nel vivo di questo editoriale, dovendo ricordare i grandi genocidi della nostra storia, CentroSud24 intende ricordare l’eccidio del popolo meridionale, brutalizzato, umiliato, soffocato col sangue in occasione dell’unità d’Italia. Al di là della favoletta dei mille di Garibaldi, l’unità d’Italia fu progettata a tavolino da potenze straniere. In primis dai francesi, che vedevano di buon occhio la creazione di uno Stato ostile all’impero austro-ungarico (motivo per cui, bruciando i tempi, già nel 1859 aiutarono i Savoia nella guerra contro gli austriaci). E poi, soprattutto, dagli inglesi, che sostennero le mire espansionistiche dei piemontesi per due motivi: sia per avere un piede nel Mediterraneo (soprattutto in funzione dell’inizio dei lavori nel Canale di Suez, che avrebbe garantito fitti traffici con l’oriente), sia per veder sgretolarsi lo strapotere in Italia dello Stato Pontificio, inviso ai protestanti.
In realtà, l’unità d’Italia non fu ispirata da principi di libertà ma semplicemente dall’intento di sostituire dei poteri stratificati (dove la Chiesa giocava un ruolo enorme) con altre forme di potere, che vedevano in alcuni Stati stranieri (interessati alla strategicità di un Paese unito) fidati alleati e finanziatori. Ma lo Stato unitario faceva gola anche a Cavour che, senza troppi fronzoli geopolitici, mirava più pragmaticamente alle casse del Regno delle Due Sicilie, così da ripagare i debiti accumulati con la francese Banque Rothschild (che, in passato, aveva finanziato le guerre piemontesi). Motivo per cui anche la Francia guardava di buon occhio l’avanzata garibaldina.
L’ Unità italiana mossa da una logica economica e di potere
Dunque, l’unità italiana fu mossa da una logica economica e di potere. Non bisogna essere neoborbonici per sostenere che il Regno delle due Sicilie fosse prospero, bensì mediamente acculturati. Oppure basta aver letto anche un solo testo datato 1905: ‘Principi di Scienze delle Finanze’, scritto dall’economista ed ex Presidente del Consiglio dei Ministri Francesco Saverio Nitti. In questo libro Nitti riportò le monete degli Stati italiani al momento dell’unificazione (parliamo, tra l’altro, di lire-oro: la moneta circolante era in metallo pregiato e, dato il suo valore intrinseco, si era mai svalutata): la Romagna, le Marche e l’Umbria avevano in cassa 55 milioni, il Piemonte 27, Roma 35, la Lombardia 8, Venezia 12 e le Due Sicilie 443. Il Sud, che deteneva circa il 70% dell’intera ricchezza italiana, era anche teatro del minore carico tributario erariale europeo. Dunque, occorreva distruggere il Sud e mettere le mani sulle proprie casse. Un affare ghiotto che interessava diversi stati europei.
Il sangue versato dal popolo del Mezzogiorno tra arresti e fucilazioni
Né fu un caso che il primo sbarco al Sud (in barba a tutte le norme di diritto internazionale) avvenne a Marsala, terra di una folta comunità britannica e del Consolato inglese. Col denaro d’oltremanica si pagarono anche i generali borbonici (che si vendettero a casa Savoia sabotando molte operazioni di guerra), migliaia di combattenti (altro che 1000!) e una cospicua flotta navale inglese, che seguiva via mare la cavalcata savoiarda. Inizialmente i generali piemontesi impiegarono 57 battaglioni, impegnando circa 20.000 soldati. Che divennero successivamente 50.000 e 105.200 nel 1863. Iniziò la lotta ai briganti, i partigiani dalla parte sbagliata della storia, che tentarono in tutti i modi di respingere (prima e dopo l’unificazione) gli invasori, difendendo i propri confini. Così, nel 1863 la legge Pica abolì i diritti costituzionali nelle regioni meridionali e fu istituito, di fatto, un vero e proprio governo militare, i cui tribunali soppiantarono quelli civili. Sul finire del 1870 nel Mezzogiorno si contavano almeno 20.000 vittime (Franco Molfese, “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, Feltrinelli) che potrebbero essere stati molti in più. Anche decine di migliaia, se consideriamo che – stando agli studi degli statistici dell’epoca Pietro Maestri e Cesare Correnti – all’indomani del censimento del 1861 la popolazione meridionale anziché crescere (come nelle altre parti d’Italia) era diminuita di 120.000 unità. Il fenomeno ebbe tale intensità che l’autorevole storico statunitense John Davis parlò di “una vera e propria guerra civile scoppiata nelle province meridionali e che il nuovo Stato tentò di mascherare col termine brigantaggio”. Negli anni ’60 si registrarono arresti e fucilazioni sommarie in tutto il Meridione, con episodi molto cruenti a Rionero, Isernia, Castel di Sangro, nell’alta Irpinia e nel beneventano dove i bersaglieri distrussero ed incendiarono i paesi di Pontelandolfo e Casalduni, trucidando uomini e donne. Così come avvenne ad Auletta e a Gioia del Colle, dove i piemontesi mandarono alla forca i residenti.
Di tali episodi, conserviamo la testimonianza del soldato Carlo Margolfo che nelle sue memorie appuntò: “al mattino riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo e fucilare gli abitanti. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava. Indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava. Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava”.
Le agghiaccianti parole scritte da Bixio, l’inizio della “Questione Meridionale” e la legge Casati
Un comportamento che oggi verrebbe punito dai tribunali militari e che, invece, all’epoca era pienamente legittimato dagli stessi generali filo-piemontesi che manovrarono i fili della spedizione. Agghiaccianti le parole scritte in un’epistola da uno dei più noti e importanti protagonisti del Risorgimento, il parlamentare e generale garibaldino Nino Bixio: “non basta uccidere il nemico (meridionale), bisogna straziarlo, bruciarlo vivo a fuoco lento. E’ un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farsi civili”. Persino Garibaldi, innanzi allo scempio perpetrato ai danni dei meridionali, espresse le proprie preoccupazioni in una lettera inviata ad Adelaide Cairoli: “gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice”.
Come confermato da una pubblicazione della Banca d’Italia del 2010, fu proprio in questi anni che iniziò la Questione Meridionale. E dilagò l’ignoranza, molta. Un piano ben preciso mirava a rendere intellettualmente inferiore il popolo meridionale: la legge Casati, infatti, stabilì che le scuole fossero finanziate dai Comuni. Ma questi enti, spogliati da ogni ricchezza durante la guerra, non riuscirono a sostenere nemmeno l’istruzione primaria, in un Paese che vide nascere nel 1200 la prima Università di Stato della storia. E non bastò smantellare il comparto siderurgico-metallurgico meridionale, addirittura uno dei primi Presidenti del Consiglio italiano, Luigi Federico Menabrea, progettò un piano segreto per deportare i dissidenti meridionali in Patagonia e nel Borneo, mentre nella fortezza piemontese di Fenestrelle, un vero e proprio campo di concentramento, furono imprigionati in condizioni disumane i prigionieri del Mezzogiorno (molti di questi brutalizzati e ammazzati). Le teste mozzate di molti briganti oggi sono esposte presso il museo di antropologia criminale di Torino, un po’ come se a Berlino esistesse una mostra permanente con i resti corporei degli ebrei. Questo centro museale, finanziato coi fondi pubblici, è dedicato a Cesare Lombroso, lo stesso pseudo-scienziato che teorizzava l’inferiorità biologica dei meridionali. Ma l’avanzata garibaldina fu aiutata anche dal primo patto italiano con la mafia.
Il primo patto italiano con la mafia
Come ricorda lo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro ‘Storia della mafia’, per l’impresa di Garibaldi fu determinante la presenza e l’aiuto dei mafiosi siciliani: senza di loro (e in particolare dei boss sanguinari Giuseppe Coppola Santo Mele e Giovanni Corrao, divenuto generale garibaldino) l’eroe dei due mondi non avrebbe avuto vita facile. Così come ricorse all’ausilio della camorra quando, giunto a Napoli nel 1860, affidò il mantenimento dell’ordine pubblico alla criminalità organizzata (e, in particolare, ai capi Tore de Crescenzo, Michele ‘o chiazziere’ e tanti altri). In cambio, promise amnistie e ingressi di camorristi nella guardia nazionale. Il forte protezionismo borbonico (che non voleva dipendere da potenze straniere) e il conseguente isolamento internazionale fecero il resto: nessuno Stato estero venne in soccorso dei Borbone, che capitolarono a Gaeta dopo 8 secoli di regno.
Il 21 febbraio 1861 Cavour proclamò “Victor-Emmanuel II, roi d’Italie”. E già, gli atti del neo-nato Stato italiano erano scritti in francese, lingua madre dello stesso Cavour (che aveva difficoltà persino a parlare l’italiano). E questo la dice lunga sulla genesi e sui ‘disinteressati’ ideali che mossero l’unità del Paese. Dopo una decina d’anni, a seguito della breccia di Porta Pia, si riuscì ad annettere anche Roma, decretandosi la fine dello Stato Pontificio. Il grande disegno si poteva dire compiuto.
Abbiamo sempre vissuto di falsi miti
Anni dopo, Antonio Gramsci scrisse su ‘l’Avanti’ che si trattò di una “dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”. Echeggiò da destra Indro Montanelli: “la guerra contro il brigantaggio costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto di falsi miti: il falso del risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola”.
Il Sud ha il dovere di ricordare il proprio passato e il sangue del popolo meridionale
Eppure, nonostante gli studi e le testimonianze di storici, economisti, politici, massoni, docenti universitari e letterati del calibro di Sciascia, Zitara, Dorso, Montanelli, Scalfari, Einaudi, Gramsci, Fortunato, Salvemini e come confermato dai dossier della Svimez e della Banca d’Italia, nonché da docenti dell’Università di Bruxelles, del Connecticut, della Federico II, di Catanzaro e del CNR, la storiografia ufficiale continua a raccontare menzogne nei testi scolastici ufficiali, offuscando la verità nei libri universitari. In fondo, come sentenziò lo scrittore Leonardo Sciascia “Non è che non si sapesse dell’ingiustizia e della ferocia che contrassegnarono la repressione (del popolo meridionale), ma era come una specie di scheletro nell’armadio: tutti sapevano che c’era, solo che non bisognava parlarne, per prudenza, per delicatezza, perché i panni sporchi, non che lavarsi in famiglia, non si lavano addirittura”. E fu così che si gettarono le basi per il divorzio in casa di un matrimonio nato sotto costrizione con l’unico obiettivo di sottoscrivere una comunione di beni e fuggire con la cassa del coniuge (molto) più ricco. Oggi, nel giorno della memoria il Sud ha il dovere anche di ricordare il proprio passato, e il sangue del popolo meridionale.