Anche l’ultima Pasqua ha confermato come per la Sicilia sia ormai divenuto necessario costruire il Ponte sullo stretto di Messina. I costi dei viaggi aerei sono esplosi, così che per un volo di andata e ritorno da Torino a Palermo il costo massimo è stato di quasi 500 euro, e volare da Torino a Catania ha comportato un costo massimo di 454 euro. Al contempo i traghetti erano affollati, le prenotazioni dovevano essere fatte con largo anticipo per garantire un posto, e a causa dell’elevato numero di passeggeri alcuni traghetti hanno subito ritardio addirittura cancellazioni. Ciò comprova ancora una volta come la carenza del Ponte, già dannosa oggi, costituisce un ostacolo insuperabile se si voglia aumentare i flussi da e per la Sicilia, per aumentare l’interscambio di prodotti e merci e il per svilupare il turismo in misura quantomeno paragonabile ad esempio ai flussi turistici che si verificano in Toscana, quando di per sé la Sicilia potrebbe avere un potenziale turistico ancor maggiore di quello.
Paradossalmente al contempo proprio in questo periodo, e sempre più spesso, nella stampa vi sono state maggiori critiche al progetto del ponte sullo stretto di Messina motivate dall’annotazione che sarebbe importante realizzare prima molte altre infrastrutture, spesso individuate nelle ferrovie e nelle strade mancanti nel Sud.
È questa critica una tipica espressione, applicata al caso, del ‘Benaltrismo’, di quel pensiero che, ignorando i dati e fatti concreti, sminuendo seri temi attuali e sopravvalutandone altri che si asseriscono alternativi, sottrae chi lo esprime alla necessità di affrontare e risolvere i temi e problemi immediati, che elude. Purtroppo un pensiero sempre più frequente, che mira a non affrontare i problemi in maniera seria, esaminandoli e risolvendoli uno alla volta, e a posizionarsi tra il non deciso, il non impegnativo, a sfuggire alle responsabilità della scelta.
È una critica molto errata, visto l’enorme quantità di progetti di ferrovie e strade già in corso di avviamento, seppur certo meno risibile di quanto non sia quella di chi, dopo aver collaborato ad impedire l’esecuzione del ponte per decenni, e avendo criticato chi lavorava per quello per aver speso centinaia di milioni per analisi saggi e progettazione, afferma ora che la fase preliminare non è durata abbastanza, che gli approfondimenti (che hanno anche portato allo sviluppo di un modello di ponte ora definito ‘Messina style’, già usato in altri paesi ma non a Messina) non sono adeguati, o, infine, che il progetto è troppo vecchio, quando ancora il progetto esecutivo non è perfezionato, né si sa se e come verranno seguiti i suggerimenti avanzate dalla commissione scientifica nominata proprio per realizzare al meglio il ponte, che ha confermato la fattibilità di esso.
Sotto il più ampio profilo del pensiero, dell’idea e dell’immagine stessa dell’uomo e del suo agire, per certi versi però questa critica non può dispiacere eccessivamente, dato che sembra essere mirata non al ‘non fare’ in assoluto ma ad un fare diverso in una diversa tempistica, e sembra quindi portare comunque un pensiero positivo circa l’agire dell’uomo, e in questo caso della realizzazione di quelle infrastrutture che da anni purtroppo in Italia sono state ostacolate o trascurate, tra cui il Ponte.
È una critica, quindi, che ha anche una parte positiva, in quanto implica una valutazione favorevole dell’uomo e del suo agire, del fare nel territorio, del suo agire e dell’interazione forte tra esso e la natura per adeguare questa a lui.
Purtroppo nel nostro paese le critiche al Ponte, ma ancor più al sistema sociale ed economico, all’agire spesso non sono state nemmeno tali, non hanno mirato ad un fare, pur diverso: a partire dalla fine degli anni 80, infatti, nel nostro paese sono emersi, si sono succeduti, e spesso sono prevalsi, principi e criteri impeditivi e distruttivi, che connettevano valutazioni negative rispetto al fare, all’agire dell’uomo, quando non ad esso stesso uomo in quanto tale.
Chi è meno giovane rammenterà che prima, dal dopoguerra agli anni 80, la cultura, la società e la politica volevano ‘fare’, volevano creare un uomo e un paese nuovi e moderni per una società vivace e desiderosa di benessere; all’epoca ci sentivamo eravamo partecipanti orgogliosi di un paese che da tempo aveva ricostruito i ponti e le ferrovie distrutti nella guerra, realizzati piani edilizia e sanitari, contemporaneamente creato aeroporti e più autostrade che negli altri paesi d’Europa; nessuno negava l’importanza della crescita, del benessere e della sua più̀ equa distribuzione e che le infrastrutture hanno una valenza sociale, economica ed estetica. Solo una parte della sinistra spesso non comprendeva l’importanza di alcuni tipi di infrastrutture, cosicché, ad esempio, il partito comunista italiano si era schierato contro la realizzazione dell’ autostrada del Sole, in parte contro la diffusione popolare dell’auto; fenomeni che furono invece insieme strumenti e momenti di crescita culturale e sociale del paese, di ricollegamento di esso, momenti essenziale della creazione di un mondo che tramite quelle infrastrutture ed i mezzi correlati scopriva anche una maggiore libertà, non solo di movimento.
Già alla fine degli anni 80 si sono però diffuse malattie del pensiero, spesso collegate ad un errato rapporto con l’ambiente e a quel moralismo che troppe volte nasconde la mancanza di base culturale e di una morale alta, a quel giustizialismo di chi non sa cosa siano giustizia e, soprattutto, libertà; malattie che da allora si sono in ampia parte sviluppate, fino a divenire purtroppo diffuse, in certi momenti divenute espressione della maggioranza, e che si sono radicate in molti fino a renderli incapaci di discernere, con l’importanza del fare dell’uomo, del lavoro che è anche la basa della nostra Costituzione, le realtà di una società complessa, infine di dimenticare l’altezza culturale e etica della politica, l’importanza di essa per la creazione e la cura della società.
Così, ad esempio, sulla scia dei tamburi milanesi di Tangentopoli fu per la prima volta (mal) ricostruito il sistema giuridico amministrativo degli appalti, innanzitutto con quella legge Merloni e con i regolamenti che più di un presidente di sezione del Consiglio di Stato inutilmente hanno denunciato essere stati pensati e creati più in un’ottica penale, di divieti, che per fare e regolare gli appalti, le infrastrutture.
Al contempo, sono nati e divenuti forti e invasivi i miti della concorrenza quale valore in sé e della politica e burocrazia europea quali strumenti salvifici per il nostro paese, è nato un pensiero che lascia ben poca spazio alla libertà, nel quale tutto è regolamentato, spesso con norme prive di alcun senso, che di fatto impediscono l’agire, o lo rallenta, o lo rende diseconomico; e ciò mentre si fingeva che fosse per la libertà di concorrenza che si distruggeva così quel sistema economico-sociale misto, ricco di strumenti anche economici creati per determinare una positiva collaborazione tra soggetti e sistemi privati e pubblici, che aveva reso fino allora il nostro paese enormemente più ricco di quanto non fosse in precedenza, col famoso ‘miracolo economico’.
Cosicché, mentre abbiamo attuato privatizzazioni sciagurate, distruttive, anche ciò ha diminuito la nostra capacità di sistema, di creare, di produrre strumenti e infrastrutture utili.
È poi arrivata la stagione dell’austerità, la negazione di ogni parte del sistema keynesiano che dal dopoguerra aveva rilanciato con le infrastrutture le economie non solo nel nostro paese, di fatto in tutto l’Occidente: è arrivata la stagione delle scelte ideologiche, dell’assoluta sopravvalutazione dell’economia neoclassica; errori che già di per sé avrebbero comunque causato impoverimento, ma che per di più sono stati attuati quando già vi erano crisi economico finanziarie che avrebbero imposto comportamenti opposti.
Infine siamo arrivati all’irrazionalità totale, da una parte con i vati della decrescita, ignoranti (alcuni deliberatamente) di economia e ancor più delle necessità del nostro Paese, innanzitutto del Sud, dall’altra con la crociata dei bambini cantori della follia dell’apocalisse climatico; fenomeni dell’irrazionalità, che spesso pervengono all’ostilità nei confronti del sistema industriale, che si esprimono con una narrazione di un mondo malato e morente che ignora come gli uomini, il mondo, non siano mai stati così ricchi e sani come in questo periodo storico, come ciò sia accaduto grazie alla scienza, all’impresa e al sistema di mercato.
Ecco perché criticare una delle più belle e ardite infrastrutture che noi potremo mai fare, essenziale per l’inserimento di tutto il sud e in particolare della Sicilia e dei suoi porti nel sistema europeo, e farlo chiedendo però altre infrastrutture non è l’errore peggiore.
Tale critica tuttavia è comunque un errore e certo non un errore minore, irrilevante, dato che sembra dimenticare i dati attuali sia del sistema globale che di quello italiano, sorattutto del sistema del Sud, infine dello specifico Ponte.
Sotto il profilo del sistema globale sembra infatti ignorare come le scelte assunte a livello macroeconomico, con la scusa della pandemia, hanno portato tutto l’occidente a rilanciare le infrastrutture e i correlati investimenti in quantità e per valori incredibili, in realtà mai ben calcolati, così che si parla in America di migliaia di miliardi di dollari, in Germania già Schauble da tempo parlava di investimenti dell’ordine di 700 miliardi di euro, nel nostro stesso paese si parla di moltissimi miliardi; e nessuno più si meraviglia o si preoccupa. Cosicché non seguire questo iter porrebbe il nostro paese al di fuori del sistema economico occidentale, lo renderebbe non concorrenziale.
A livello della politica e dell’economia europee sembra ignorare come base dell’Europa stessa sia l’estensione delle infrastrutture di collegamento in tutti gli ambiti che configurano l’Europa stessa.
Il Ponte sotto il profilo italiano e del Sud
A livello italiano, ed anzi del Sud, infine, chi critica così il ponte di solito dimentica che questo è parte, molto importante, pur se il suo costo è rilevante ma non primario, dell’insieme di programmi e progetti infrastrutturali già approvati, molti già posti a gara, formanti un contesto coerente nel quale molte decine di miliardi di euro sono previsti per infrastrutture ferroviarie e stradali destinati alla Calabria e Sicilia; infrastrutture ferroviarie che diverrebbero per la Sicilia quasi inutili senza il Ponte, che ne consentisse la continuità col continente. Sembra, per di più, ignori totalmente i calcoli circa il potenziale ritorno di questa infrastruttura per il territorio, come i calcoli già fatti a suo tempo dalla Regione Sicilia, quelli dell’università di Catania, quelle fatte da altri istituzioni italiane, infine quelle da ultimo elaborate anche da istituzioni internazionali.
Cosicché questa critica è errata, ed anzi non ricevibile quando venga da chi potrebbe basarsi sui fatti e sui dati economici prima di affrontare questi temi, e lo dovrebbe fare, prima di esprimere giudizi così poco fondati.
Essa al contempo è una critica molto distruttiva a livello di comunicazione: il Ponte è oggi un’immagine positiva significativa di tutto il Paese, innanzitutto di ciò che può divenire il Sud, come un futuro di genialità, capacità e forza, che si proietterà in tutto il mondo; un’immagine che esso già ci rappresenta all’estero anche al di là di quanto si possa spesso comprendere. Lo è, così come al contrario esso diverrà un’immagine negativa, disastrosa, se coloro che continuano a battersi contro di esso e le infrastrutture con esso collegate riusciranno a impedirne l’esecuzione.