In questo primo incontro, che si inserisce in un tridente di appuntamenti offerti dalle cattedre di Etnomusicologia (a cura della professoressa, Simona Frasca) e Musicologia (a cura del professore, Enrico Careri) della Federico II di Napoli, abbiamo avuto modo di percorrere alcuni scampoli sulla vita di De André, sul suo percorso musicale e su tutto quell’esperire che lo ha reso celebre, sia in Italia, sia nel mondo.
di Antonio Bassano
De André fu un cantautore italiano, noto al grande pubblico per aver introdotto nelle sue canzoni delle tematiche che vanno al dì la di quelle sentimentali, in grado di offrire al pubblico grandi spunti di riflessione e che hanno, nel corso del tempo, coinvolto il pubblico che ascolta musica leggera in Italia.
Si è trattato di un incontro, tenutosi il 28 marzo 2024, dove vi è stata questa forte immanenza tra i racconti biografici e la musica di De André, cantata – dopo un previo intervento del dirigente del Museo “Via del Campo 29 Rosso”, Laura Monferdini – dagli artisti: Stefano Bocciero, Miriam Cascione, Francesca Iervolino e Giovanni B. Scaletta.
De André fu una figura fondamentale per la musica italiana, uno dei grandi esponenti della Scuola Genovese, quel movimento artistico-culturale che nacque inizialmente presso gli anfratti popolari del Capoluogo ligure, negli anni Sessanta del XX secolo e sfocia tutt’oggi nel mare magnum della canzone d’autore italiana.
Chi conosce bene Fabrizio De André?
A questa domanda risponde il dirigente del Museo “Via del Campo 29 Rosso” che ha avuto modo di conoscere personalmente il cantautore e ha vissuto i fulgidi anni che lo hanno portato ad entrare nella “hall of fame” della musica nazionale.
Il Progetto “Via del Campo 29 Rosso”, sito all’interno dell’omonima via, ovvero di quella Genova romantica e leggendaria che raccontò De André nelle sue sublimi opere, mira a conservare, senza alcuna commistione o forzatura di sorta, il patrimonio culturale e musicale della Scuola Genovese.
In una emozionante video chiamata, abbiamo avuto modo di scorgere le testimonianze del dirigente e del suo contatto con De André: sappiamo da essa, infatti, che il celeberrimo cantautore si mosse in una realtà molto complessa. Genova è da sempre una città ostica, sofferente, amara, ma una città che, come Napoli e Roma – proprio per i suoi tratti culturali, pieni di luci, di colori, di suoni, emozioni, unici e ricchi di contraddizioni – non puoi fare a meno di vivere, immergendoti al suo interno.
Fabrizio si legò ai Caruggi, questa tipologia di reticolo stradale tipica dei borghi liguri, che immerge il visitatore tra i vecchi palazzi dove si respirano la storia e i racconti di altri tempi. Rappresentano un po’ il simbolo dell’area popolare di Genova, tuttavia, il cantautore nacque in una famiglia borghese e, forse, fu proprio questa dicotomia apollineo-dionisiaca che si consumò tra la borghesia e gli strati dimenticati della società a far sorgere in lui quella vena anarchica che caratterizzò le sue idee, le sue battaglie, il suo repertorio musicale e ogni piccolo elemento della sua esistenza.
Le parole, filtrate dall’audio di un pc portatile, iniziano progressivamente ad assumere quei connotati idilliaci che ci riportano a quei periodi in cui un De André, nel pieno del suo estro creativo, fece non poca fatica a muoversi nelle fauci delle potenze egemoni religiose e governative che mal digerirono la fede anarchica e anticonformista dell’autore.
De André ha vissuto la sua infanzia a villa Durazzo Bombrini (una delle ville storiche del ponente genovese), i fratelli furono due e il cantautore visse un po’ all’ombra del fratello che, col passare del tempo, ebbe più successo negli studi e quindi pare che riuscì a godere di attenzioni e considerazioni maggiori in ambito familiare.
Successivamente, proprio per poter mitigare queste gerarchie che si formarono in ambito familiare, forse soffocanti per De André, i genitori decisero di fargli proseguire gli studi fuori casa, per avvicinarsi a tutti quegli impulsi, a tutte quelle conoscenze e a tutte quelle passioni che trovarono sbocco nei suoi brani.
C’è un forte e commovente ricordo di De André da parte di Laura, una memoria vivida e pitagorica che sfocia nel legame fra il cantautore e il poeta e paroliere genovese; Riccardo Mannerini «un anarchico vero» che con una delle sue massime opere “L’Eroina” contribuì al potentissimo brano “Cantico dei Drogati”.
Mannerini fu un personaggio fuori dal coro, visse ai margini della borghesia al pari di Baudelaire e la sua sregolatezza trovò un minimo di equilibrio mediante la madre: lei, infatti, andò a lavorare mentre lui e De André si dilettavano in ampie e lungimiranti battibecchi sui massimi sistemi.
Mannerini verrà ricordato per sempre per l’opera “Signore, io sono Irish” (dove Irish sta per il poeta che gioisce dinanzi alle bellezze della creazione, ma in modo ragionato e indagatore) che fece parte del sodalizio artistico avuto coi New Trolls.
Siamo a 44 anni dalla scomparsa di Mannerini e a 24 anni dalla scomparsa di De André e il loro rapporto di amicizia cessò a causa di una forte lite, il caso scatenante fu proprio la visione anarchica di Riccardo, molto più radicale rispetto a quella di Fabrizio: quest’ultimo, infatti, aveva mantenuto dei contatti, seppur sporadici e frammentari con la piattezza dell’epoca.
Nell’arco della sua vita, in un percorso molto profondo e lontano dai connotati che l’idealismo di Fichte ha strutturato sui lavori biografici, frangente in cui il cuore di Laura si è espresso più di quanto ha potuto fare il suono della sua voce, De André si trasferì a Milano, una città che patì molto e che gli fece sentire ancor più forte la mancanza di quell’amante passionale che fu per lui Genova.
De André amava il traccheggio a mare e utilizzava sovente la sua barchetta per salpare verso mete affascinanti, come la Grecia o le coste baltiche e tutto questo lo fece un po’ con quello spirito di colui che ricerca, anche con una certa profondità di pensiero, l’origine dell’umanità e dei tratti culturali che li caratterizzano.
Questo poliedrico artista dedicò così il suo straordinario atto d’amore con il brano “Creuza de mä” e ciò ci illumina su questo grande successo che, inizialmente faticò a conquistare il pubblico, poiché «il suo genovese non lo capivano neppure a Genova» e ad oggi risulta essere uno dei 200 album più venduti al mondo.
Fabrizio fu un pacifista legato a Fernanda Pivano, da giovane fece molte performance di avanspettacolo con la moglie di Lorenzo Gobbi e, nell’arco della sua esperienza artistica ha trattato molti temi quali attualità e politica.
Laura conobbe Fabrizio nel ‘74 e fu proprio in quegli anni che ebbe modo di registrare più di 100 album cantati dal genio genovese nella sua grande tournée dedicata a “Il principe libero”.
Un excursus sulle opere
Laura ricorda agli studenti e i partecipanti in sala il rapporto conflittuale che Fabrizio ebbe col padre, infatti inizialmente non poté utilizzare il suo cognome, poi questa assurda pretesa decadde quando fu pubblicato il fortunatissimo brano “Marinella”.
“Marinella” fu un fatto di cronaca che Fabrizio lesse quando aveva solo 15 anni, si trattò di una colluttazione tra una ragazza (costretta a prostituirsi) e un rapinatore che l’aggredì con l’intento di scippargli la borsa nei pressi di un fiume; durante la colluttazione, la ragazza cadde e morì.
Fabrizio diede dignità a questo triste episodio, dedicandole una ninna nanna, perché questa fu la caratteristica di questo genio del cantautorato italiano egli «faceva spargere fiori su luoghi di bambine e puttane».
Tra le tante opera di Fabrizio, Laura non ha potuto fare a meno di citare “Bocca di rosa”, per poi passare ad un tripudio di amori perduti, affrontato con acume e scrupolosità nel ‘66 nell’opera intitolata “La canzone dell’amor perduto” che trova continuità con un’altra grande chicca rimasta come una iperbole per tutti gli appassionati di musica leggera: “Amore che viene, amore che va”.
Questo fiume di amori perduti sfocia nell’album “Storie di un impiegato” (che ricevette una dura accoglienza da parte della critica) dove l’impiegato nel corso dei vari brani si incammina in una lotta senza quartiere contro il potere, ma assume una posizione piuttosto individualista. Va successivamente in carcere e al suo interno scopre che bisogna, invece avere una posizione collettiva. Scrive alla sua donna, ma quest’ultima si vende per un po’ di notorietà, ma lui non rinuncia al suo amore.
Nel corso della sua carriera, De André non si lasciò scappare mai l’occasione di rappresentare Genova, ma anche Napoli, Palermo, Reggio Calabria: di queste città dai risi amari rappresentate dai volti dei pescatori, De André vorrebbe dire qualcosa, ma “tutto quello che io posso dire loro… Loro già lo sanno dal mare”.
Il brano raccontato nella fase finale di questo incontro, che si è chiuso con la ballata anarchica, cantata dagli artisti in sala, è stato il brano “Il pescatore” dove un assassino si mostra ad un pescatore che lo perdona e lo lascia andare per la sua strada.
Conclusioni
Non possiamo fare altro che rimanere commossi dello spirito che Laura Monferdini, le cattedre di Etnomusicologia e Storia della Musica della Federico II e gli artisti presenti nell’Aula A 3 della sede di Via Marina, 33 hanno profuso per ricordare una leggenda che desta tutt’oggi a tutti una grande ammirazione.
Nel corso del tempo mi sono chiesto “Com’è possibile che costui riuscì a scrivere e cantare ciò che gli passò tra la mente, in un periodo così controverso della storia del nostro Paese?”. Per me De André è stata una figura umana dai tratti divini, chissà forse una reincarnazione degli inni orfici che nessun titano, nessun potere – persino quello più contorto, più nascosto – è stato in grado di sovrastare.
Nemmeno quando fu sequestrato, insieme a Dori Ghezzi, dall’anonima sequestri in Sardegna, persino lì non si allontanò dai suoi connotati mitologici, stipulando un rapporto simpatetico coi rapitori e graziandoli una volta che furono catturati dalla polizia e processati.
Lui, con la sua sola presenza, riuscì a rappresentare quel volto tragico dell’esistenza nietzschiano, quello che si allontana dalla metafisica e dall’analitica tradizionale per emergere in quella dimensione dell’esperire dove l’anarchismo diviene il suo dispositivo; una mappa che gli consente di essere quel bambino che si mette alle spalle l’oblio, la rassegnazione e il senso di colpa, ricominciando a vivere con spensieratezza, come un gioco o un momento creativo che conquista il proprio mondo.
La crasi della sua esistenza si tese verso quel caos ordinato che tutt’oggi lo rappresenta, come se la sua vita si fosse estesa lontana dalla temporalità e lontano da tutte quelle convenzioni sociali durkheimiane con le quali tutti noi siam costretti, chi prima e chi dopo, a farne i conti.
D’altro canto siamo sempre sulla scala della musica e, quello che De André ha fatto, non è null’altro che la rappresentazione musicale di un mito che diviene reale mediante una particolare mediazione rituale, una cerimonia che non assume però quei connotati salvifici e purifici che fanno parte di quella metafisica della sostanza aristotelica, bensì personifica proprio quel rito dionisiaco che consiste nell’esaltazione, nella follia, nel travestimento, nella maschera. Insomma, un rituale che sconvolge le leggi e le categorie sociali.
Link
http://www.viadelcampo29rosso.com/
https://www.studiumanistici.unina.it/
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