Riflessioni post covid, in tempi di revisione del reddito di cittadinanza e di diffusione dell’Artificial Inteligence (AI)
di Fabrizio D’Aloia
In molti mi hanno chiesto, come imprenditore, business angel e open innovator advisor, cosa ne pensassi dei mutamenti in corso nel mercato del lavoro post Covid tra disoccupazione crescente da un lato ed indisponibilità dei lavoratori a svolgere determinate attività dall’altro, alla luce anche di un’influenza sempre maggiore delle nuove tecnologie ed in particolare dell’Intelligenza Artificiale che, applicazioni come ChatGPT, hanno velocemente portato alla ribalta e all’attenzione di tutti.
Con quello che lo Stato spende già oggi in pensioni, politiche sociali e incentivi alle imprese, si potrebbero erogare circa 1.500 euro al mese ad ogni famiglia.
Assistiamo continuamente ad ogni festa dei lavoratori e ad ogni manifestazione inerente il lavoro a dibattiti e rivendicazioni sui diritti, le retribuzioni e la sicurezza dei lavoratori, sul lavoro precario e gli investimenti in formazione, sul ruolo dei sindacati e delle imprese in genere.
La sensazione che ho è che a volte certi temi sono diventati dei semplici argomenti, triti e ritriti, che identificano da sempre il ruolo che ciascuna parte sociale riveste, ma in cui nessuno più crede realmente perché il lavoro oramai si è trasformato in quella “cosa” che interessa tutti ma non attrae nessuno, che tanti vogliono e pochi desiderano, che tutti devono fare, ma in fondo quasi nessuno vuole più davvero fare.
Già questo costituisce un grosso campanello d’allarme, e dovrebbe dirci che il nostro concetto, la nostra definizione e la nostra prassi di lavoro, presenta più di qualche problema serio.
Ma le crepe oramai sono ben evidenti, e dal fondo sono oramai arrivate in superficie. Non è solo che, se ci fermiamo a riflettere, non sappiamo di cosa parliamo quando parliamo di lavoro, ma è proprio che esso non mantiene più le sue premesse e promesse storiche.
Non è più credibile, non “funziona” più, e lo si vede molto bene nei due ritornelli imperanti e opposti che oggi si sentono al riguardo: da una parte il “lavoro che non paga”, e dall’altra le persone “che non vogliono lavorare”.
Il punto di domanda: A cosa serve il lavoro?
La risposta infatti più “comune” alla domanda «A cosa serve il lavoro?» si articola in due parti:
«A permettere alle persone di vivere» e «A far crescere l’economia».
Due compiti basilari, speculari alle due parti del mercato capitalistico, ma che il lavoro fa sempre più fatica ad assolvere e la gente se ne sta sempre più rendendo conto. Chi entra nel mercato del lavoro, specie se per la prima volta, ha sempre più difficoltà a ottenere un reddito che gli consenta di vivere autonomamente. Dall’altra parte, a causa della concorrenza globale, della crescente automazione, dell’imprevedibilità dei mercati, sempre di più le aziende faticano a creare vero valore aggiunto e una vera crescita economica, senza nemmeno parlare di quella sociale.
Gli ultimi 20 anni sono stati caratterizzati da un continuo tentativo da parte dei governi occidentali di rattoppare le sempre più evidenti crepe del capitalismo. A partire dal mercato del lavoro, spendendo svariati miliardi da una parte per formare le persone alle emergenti nuove tecnologie e tendenze, dall’altra, varando incentivi in favore delle aziende perché assumessero, si rinnovassero e investissero a loro volta. I risultati sono lì sotto gli occhi di tutti: più passano gli anni e più il divario tra la preparazione dei lavoratori e i desiderata delle aziende si allarga, mentre diventa sempre più evidente che incentivi e sgravi statali, anche se a volte efficaci nel breve, non riescono a innescare una vera crescita economica e produttiva di lungo periodo.
L’intervento dello Stato con le politiche di sostegno al reddito
Non vedendo però alternative, e travolti a volte da crisi impreviste (pandemie, guerre, inflazione, Brexit in UK, energia), gli Stati occidentali hanno sostenuto i cittadini e le aziende in maniera sempre più massiccia.
Negli ultimi anni in Italia, tra reddito di cittadinanza, cassa integrazione, bonus e incentivi vari, lo Stato ha aumentato enormemente il suo intervento nell’economia, espandendo sempre di più il debito pubblico.
Si attuano continui scostamenti di bilancio per sostenere i consumi, limitare gli effetti dell’inflazione e della guerra, tagliare il cuneo fiscale. Tutti interventi che andranno ad alimentare un debito già mostruoso, che non si sa bene chi, quando e soprattutto come sarà ripagato in futuro.
Questi interventi appaiono di volta in volta irrinunciabili per affrontare le crisi e le emergenze “del momento”, ma in fondo sono solo dei palliativi perché il problema è più profondo e strutturale. La verità è che formare le persone, solo sulla promessa di un futuro stipendio, non funziona, soprattutto se si tratta di competenze specialistiche. Inoltre i margini operativi per le aziende sono sempre più ridotti, e oggi l’unico vero spazio che tante di loro hanno per tagliare i costi e rimanere competitive è solo il lavoro e l’automazione dello stesso. Insomma, l’aspetto “vocazionale” nel lavoro è oramai ineludibile (non si può fare bene un lavoro qualificato a lungo per il solo reddito senza passione o interesse intrinseco) e l’impatto della globalizzazione e dell’automazione rendono sempre meno profittevole l’attività imprenditoriale ed il business in generale.
Si può ancora salvare il capitalismo?
Negli ultimi anni mentre gli Stati cercavano di salvare il capitalismo quest’ultimo cercava, a sua volta, anche di salvare sé stesso. Da una parte generando e alimentando culture come quella degli spin-off, delle start-up, dello smart-working e dei free lance, cioè modelli che incentivano i lavoratori a divenire imprenditori, magari anche solo di se stessi, dall’altra introducendo ed “iniettando” sempre di più “cultura finanziaria” nelle aziende, cioè invitando le imprese a concentrarsi più sulla raccolta di capitali che sulla creazione di utili. Ma anche queste “soluzioni” si stanno rivelando molto limitate, essendosi oramai incarnate in derive parossistiche ed estreme come il play-to-earn o la totale dominanza delle logiche finanziare, spesso “tossiche”, su quelle puramente economiche in molte aziende di riferimento.
Dovremmo comprendere che il capitalismo oggi è come una vecchia auto: ha fatto tanta strada e portato anche grandi risultati, ma oramai funziona a malapena e consuma tanto, anzi troppo, carburante. Non la si abbandona solo perché non si vuol spendere per rottamarla o qualcuno le si è (anche comprensibilmente) molto affezionato e non si vedono (o non si vogliono vedere) alternative. Si può quindi continuare a usarla spendendo un capitale dal meccanico (per esempio introducendo il salario minimo o il reddito di formazione) per poi trovarsi, un giorno non troppo lontano, magari “a piedi in aperta campagna”, oppure si può saggiamente prendere atto della realtà e cambiare radicalmente approccio.
L’altra via del capitalismo moderno: il Reddito di Base Universale
Oggi lo Stato italiano spende in welfare quasi 650 miliardi di euro. Di questi ultimi, più della metà sono impiegati nella previdenza sociale (pensioni) e quasi un quinto in politiche sociali (sostegni al reddito) per un totale di circa 435 miliardi. Inoltre, lo Stato spende quasi 140 miliardi l’anno di investimenti, di cui circa 50 in contributi e trasferimenti a fondo perduto che vanno direttamente alle imprese. In Italia ci sono circa 25,7 milioni di famiglie, di cui un terzo costitute da un solo componente, e una media di 2,3 persone per famiglia. Quanto costerebbe dare loro in media 1.500 euro a testa al mese? 462,6 miliardi di euro all’anno.
Quindi, se semplicemente utilizzassimo quello che spendiamo oggi in pensioni, politiche sociali e incentivi alle imprese e dessimo ad ogni famiglia 1.500 euro al mese, lo Stato risparmierebbe. Già oggi, ma ancora di più in futuro, dal momento che la popolazione sta inesorabilmente invecchiando. Questo senza andare a toccare nessuna voce di spesa fondamentale per il welfare, come la sanità, i trasporti, l’istruzione, la giustizia o l’ordine pubblico.
Sarebbe quello che viene chiamato Reddito di Base Universale o Universal Basic Income (UBI), un’idea teorizzata da decenni, discussa e sperimentata in tutto il mondo, e che prevede “semplicemente” di dare a tutti i cittadini, dalla nascita o dalla maggiore età, insieme agli altri servizi di base, una certa somma di denaro mensile sufficiente a condurre una vita dignitosa, a prescindere dall’estrazione sociale o dalla situazione occupazionale, economica o patrimoniale. In particolare, se assegnato dalla nascita e custodito, anche parzialmente, in un locked account, garantirebbe anche un piccolo capitale da investire al raggiungimento della maggiore età, una specie di “trattamento di inizio rapporto”. In pratica l’equivalente di un trattamento di fine rapporto al contrario, cioè anticipato all’inizio dell’età adulta potendo così l’individuo beneficiarne per un maggior numero di anni e, soprattutto, in età produttiva.
Qualcuno penserà che se ci fosse un Reddito di Base Universalenessuno vorrà più lavorare, restando a casa a godersi consumi improduttivi come bere, guardare la tv e giocare ai videogiochi. È vero semmai il contrario: sono moltissimi oramai gli studi e gli esperimenti sul campo che dimostrano che quella del “sussidiato pigro” è una leggenda, e lo è tanto più quando il sussidio è totalmente incondizionato.
Se infatti è percepito svincolato da ogni requisito o azione, viene molto più onorato perché si svuota della sua considerazione sociale colpevolizzante e negativa, oltre a non essere soggetto a quella che viene chiamata la “trappola della povertà”.
Con un Reddito di Base Universale le persone quindi non smetterebbero di lavorare, né di istruirsi: anzi, si dedicherebbero ad attività di pregio per cui sentono maggiore attitudine e vocazione, apportando alla società un maggior valore aggiunto nel lungo periodo.
Certamente alcuni lasceranno il proprio lavoro, ma sarà un bene più che un male per la società: si farà pulizia di tanto lavoro di scarsa o nulla produttività, creato e sostenuto fittiziamente nel tempo per ragioni sociali e politiche e che molte (forse moltissime) persone mantengono solo per paura di perdere il reddito necessario a vivere. E, ovviamente, tutto il lavoro sfruttato e sottopagato sparirebbe, e, con esso, anche tutto il relativo contenzioso giudiziario con buona pace per gli avvocati, i giudici e i sindacati.
Si arresterebbe, o quanto meno rallenterebbe, anche la progressiva desertificazione economica e sociale delle aree più svantaggiate e depresse del Mezzogiorno d’Italia, come ha sottolineato recentemente l’economista Giovanni Barretta nel suo intervento in sala stampa a Montecitorio all’atto della costituzione del tavolo tecnico dell’Intergruppo parlamentare “Sud, Aree interne e Isole minori” di cui fa parte “la narrazione che finora eravamo abituati a sentire, che vedeva nel Nord del Paese la locomotiva in grado di trainare anche il Sud più arretrato, si è rivelata del tutto sbagliata; al contrario, è il Sud, che ha maggiori potenzialità e margini di crescita, che può fare da locomotiva anche per il Nord, ormai saturo, con politiche di rilancio concreto; ad esempio, puntando su istruzione, formazione, specializzazione produttiva e sostegno alle vocazioni naturali che il territorio esprime, per giungere ad uno sviluppo che potrebbe dirsi “glocale” (capace di tenere insieme le esigenze della globalizzazione con quelle della valorizzazione della dimensione e delle specificità locali). La rivoluzione che la AI determinerà nel mercato del lavoro e nei modelli di vita sociale merita una riflessione approfondita, specie per il Sud, che già oggi è marginalizzato e che vede crescere il divario socio-economico con il resto del Paese, anche in conseguenza della fuga, oramai inarrestabile, dei suoi giovani migliori (questa volta ben istruiti e qualificati) e dei tanti cervelli che cercano, anche all’estero, prospettive più incoraggianti… Occorre, dunque, un approccio diverso rispetto al passato, prendendo consapevolezza del fatto che il lavoro, come finora l’abbiamo concepito, con la sua funzione, i suoi tempi, le sue modalità di organizzazione ed esecuzione, non esiste più… In un sistema economico e sociale profondamente trasformato, e la stagione del Covid ha accelerato questo processo, la soluzione ai problemi alla crisi non può ricercarsi nella semplice eliminazione del reddito di cittadinanza…”.
Non solo: con un Reddito di Base Universale concretamente si eliminerebbe la povertà, e quindi la devianza e la tendenza a delinquere diminuirebbe sensibilmente, colpendo duramente la criminalità sia comune che organizzata. Le persone si curerebbero meglio e farebbero più prevenzione, e investirebbero di più nella loro formazione o nell’apertura di un’attività in proprio. Infine, diminuirebbero molto anche i consumi “consolatori”, quelle spese effimere e spesso pure deleterie o addirittura pericolose (come l’alcol, il fumo, il gioco d’azzardo, le droghe) che le persone spesso fanno per trovare distrazione da una vita deludente, magari proprio a causa di un lavoro frustrante, sfruttato o poco riconosciuto e gratificante socialmente. Sarebbe invece nobilitato e rivalutato tutto quel lavoro di cura e di cultura che oggi viene svolto da milioni di persone, ma che spesso viene snobbato o considerato un sub-lavoro o lavoro di serie “B” e di cui oggi e ancora di più domani avremo un crescente disperato bisogno.
A regime, quindi, il Reddito di Base Universale comporterebbe non solo un enorme risparmio per lo Stato in termini di spesa sanitaria, ordine pubblico, istruzione e giustizia, ma potrebbe anche far fare un balzo in avanti all’economia perché costituirebbe un enorme aiuto alle aziende, che potrebbero tagliare drasticamente il costo delle risorse umane, per magari investirlo in ricerca, sicurezza e innovazione. Il salario percepito andrebbe infatti a sommarsi al Reddito di Base Universale, posizionandosi quindi come un incentivo e preservando tutte le logiche di mercato, ma introducendo una formidabile base di equità. E magari anche premiando una produzione più sana, più sostenibile, e non massificata e massificante. Porrebbe anche le basi per una moderna riforma del diritto di voto fondata su principi di maggiore consapevolezza e pesata meritocraticità degli elettori.
Il Reddito di Base Universale quindi non sarebbe una negazione del capitalismo, quanto piuttosto una sua evoluzione “soft, gentile”, meno feroce e competitiva e più equa e generativa. Dopotutto va ricordato che la funzione fondamentale dell’economia non è aumentare la ricchezza e la produzione, ma preservare il patto sociale. In passato le due cose coincidevano, perché il lavoro riusciva appena a produrre risorse sufficienti al sostentamento della popolazione, e se la popolazione non mangiava il patto sociale non reggeva. Ma oggi il lavoro è enormemente più produttivo. Creiamo già ricchezza più che sufficiente per poter coprire i bisogni di base di tutti nel mondo, se solo la distribuissimo solo un po’ più equamente.
Il Reddito di Base Universale: una scelta ineluttabile
La questione quindi non è se scegliere o meno la soluzione del Reddito di Base Universale, ma di non ritardare troppo il suo arrivo. Le questioni demografiche e ambientali già stanno di fatto imponendo la sua adozione. Gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione quindi non sono tanto economici, quanto culturali e politici. Va anzitutto abbandonata la vecchia concezione per cui il lavoro è una commodity e un mero mezzo di sussistenza, un dovere spiacevole per poter accedere a un minimo di sostentamento e di rispetto sociale. Dovremmo quindi svincolare il lavoro dalla sua funzione più evidente e basilare per nobilitare invece le altre sue due funzioni fondamentali: quelle della costruzione identitaria sociale e della auto-realizzazione e trascendenza. Insomma, dobbiamo dargli un nuovo senso.
È poi necessario anche vincere le resistenze politiche e giudiziarie di chi si opporrà per difendere le proprie rendite di posizione e i propri diritti acquisiti. Ma d’altronde siamo in una democrazia: se una maggioranza si esprime chiaramente per una soluzione, questa dovrebbe solo essere adottata. La raccolta di firme europea in corso per l’istituzione di un Reddito di Base Universale in tutta l’Unione Europea potrebbe essere il primo passo concreto in questa direzione.
L’Intelligenza Artificiale e la sfida al mercato del lavoro
Sam Altman è CEO e fondatore di OpenAI la start-up che ha sviluppato ChatGPT, il chatbot in grado rispondere ad ogni (potenziale) domanda e presto anche in grado di soddisfare quasi ogni nostra richiesta operativa come un eccellente personal assistant attivo 24/7.
E’ così consapevole del potenziale tanto disruptive dell’AI sul mercato del lavoro, che ha finanziato una nuova startup che ha l’obiettivo di attribuire a tutti, in tutto il mondo, un Reddito di Base Universale. Il progetto finanziato con oltre 100milioni di dollari è basato sulla tecnologia blockchain e un modello di business innovativo che fa leva sulle caratteristiche “smart” delle crypto valute e la dirompente Finanza Decentralizzata (DeFi). La ricerca di un modello di business per generare un. Reddito di Base Universale sta diventando il nuovo Sacro Gral.
Arriviamo quindi entrambi, Altman ed io, da strade e prospettive diverse, alla stessa identica conclusione: l’esigenza di istituire rapidamente il Reddito di Base Universale.
Non sappiamo ancora se sarà la soluzione ai complessi problemi del lavoro in un mondo sempre più caratterizzato dalla disoccupazione umana e dalla piena occupazione delle macchine e degli algoritmi, ma è certamente una strada che vale la pena di perseguire con determinazione ed al più presto.
Nella nuova era: il 1° maggio sarà la festa dei disoccupati
In questa logica la disoccupazione diventa una “manna caduta dal cielo” che ci porta a “festeggiare” ogni posto di lavoro perduto con una ricorrenza, quella del primo maggio, che diventerà, ben presto ci auguriamo, la festa dei disoccupati, un grande passo dell’umanità verso la piena libertà dell’individuo e verso una vita improntata alla bellezza e orientata alla ricerca del sapere, alle scoperte, alle invenzioni, alle arti e alla preservazione e valorizzazione della memoria dell’umanità nel suo lungo percorso evolutivo dalle caverne ai confini dell’universo.