di Pino Aprile
Il terzo scudetto del Napoli è uno dei più meritati della storia del calcio italiano e non parla solo di sport fatto bene, ma anche di storia e di politica, perché:
lo sport è un confronto di potere spostato dai campi di battaglia a quelli di atletica. È una forma di guerra ritualizzata, ovvero una conquista di civiltà che consente di stabilire la prevalenza di alcuni su altri, senza spargimento di sangue o eliminazione, se non metaforica, dell’altro (per non inorgoglirci troppo: ci sono conflitti ritualizzati anche nel mondo animale).
La sacralità dello sport fu codificata nel mondo greco e, con le Olimpiadi, il suo significato di guerra simulata divenne così esplicito che, per le Olimpiadi, si interrompevano le guerre in corso. Oggi, si interrompono le Olimpiadi per le guerre. Non ci potrebbe essere una prova più evidente di una regressione di civiltà.
Lo sport è scienza che confina con la divinità: gli atleti che vincevano le gare olimpiche erano ritenuti semidei. Alcune città abbattevano le mura difensive, se potevano vantare un campione olimpico. E quanto alla scienza: il primo a concepire l’idea di comportamenti e alimentazione finalizzati ai risultati delle gare fu un tarantino, Ikkos, inventore della medicina sportiva, atleta e medico (ma allora il sapere non era fatto a fette: dalla filosofia allo sport, si coltivava un equilibrio di mente e corpo). Ikkos compì un’impresa storica, vincendo tutte e cinque le gare fondanti delle Olimpiadi, contro i più grandi del tempo, ritenuti imbattibili. Lo stupore fu tale che gli eressero subito una statua nel tempio di Era, a Olimpia (era il 480 avanti Cristo).
Al ritorno a Taranto, a Ikkos, poco più che un ragazzo, fu affidata la guida del Gimnasium che era palestra atletica e culturale. Oggi Ikkos è venerato all’estero, ignorato in Italia (terrone?). Negli Stati Uniti, gli atleti che vincono medaglie alle olimpiadi devono dare al proprio allenatore “la medaglia di Ikkos” (la gestisce “The Order of Ikkos”), per condividere con lui la gloria, dopo aver condiviso la fatica e gli insegnamenti.
Lo scudetto del Napoli cambia il racconto del Sud
Questa idea di sport che è un passo avanti dalla bestialità alla civiltà, espressione di una intera comunità, esercizio guidato dalla mente e dalla scienza (non solo medica) che sconfina nel sacro, è un’idea meridionale e mediterranea che è stata accolta e fatta propria in tutto il mondo. Questa idea è nella memoria ancestrale dei terroni, in modo inconsapevole. Ma il terzo scudetto del Napoli ha un valore che va oltre questi lusinghieri richiami, perché:
i primi due scudetti sono stati vinti avendo in squadra il dio del calcio, quel Diego Armando Maradona capace di inventare le vittorie da solo, nonostante sregolatezze e autolesionismi. Questo scudetto è frutto di una squadra che gira come un orologio, perfettamente organizzata e motivata; gestita da un allenatore che non lascia nulla al caso e da una società ben governata, con i conti a posto. Ci sono bei campioni, ma si sono rivelati tali all’interno e nello sviluppo dei sistemi sportivi e societari del Napoli. Alcuni di loro sono stati presi da squadrette di periferia, in paesi in cui i livelli di attrezzature e i compensi sono imparagonabili a quelli europei.
Oggi, questi calciatori son ritenuti fra i migliori al mondo e hanno quotazioni stellari, ma non erano tali quando gli esperti del Napoli ne hanno intravisto il valore e deciso di investire sulle loro capacità, catapultandoli in una corsa per lo scudetto italiano. Con quei giocatori, il Napoli ha sconfitto club miliardari che, per le loro squadre, spulciano la lista dei più quotati atleti e fanno la spesa a suon di tanti zeri.
Le squadre e le società meridionali di calcio non hanno le risorse di quelle del Nord. Spesso, le loro società e l’intero parco giocatori non valgono, sul mercato, quanto uno solo dei campioni delle squadre blasonate e paperoniche del Nord. Ma giocano nello stesso campionato (negli Stati Uniti, per esempio, per il basket, sono previsti meccanismi correttivi di tale genere di squilibri). Questo vuol dire che, a parità di classifica, il valore dei punti di una squadra del Sud o del Nord non è lo stesso. Bisognerebbe applicare un coefficiente che tenga conto degli investimenti, per calcolarlo. Se una squadra spende venti volte di più, per avere gli stessi punti di una che investe un ventesimo, è falso e disonesto dire che sono pari.
Pietro Mennea, per dire, La Freccia del Sud, divenne l’uomo più veloce del mondo dovendosi allenare in campetti rimediati, sui tratturi, con scarpe che gli segavano i piedi e un corpo ossuto e sgraziato che pareva negato per la corsa. Il valore del suo incredibile record (rimasto imbattuto nel mondo per quasi vent’anni e ancor ineguagliato in Europa, dopo 44) non può essere messo sullo stesso piano dei risultati di chi ha da subito tutto e il meglio, ma bisogna misurarlo alla luce di quel che gli disse il suo più grande avversario, il velocista russo Valerj Borzov: «Non ho mai visto tanta volontà in un uomo solo!».
Lo scudetto del Napoli, quindi, questo terzo scudetto, è risultato di un’ottima gestione societaria, del lavoro di un grande allenatore, di una squadra che i campioni li crea e non li prende già fatti, maturi, sul mercato; che ha la sua forza in un sistema di valori con cui riesce a prevalere anche in una così grande inferiorità di risorse, possibilità e… aiuti (basterebbe citare la vergognosa tolleranza della Federazione calcistica per il razzismo ormai endemico contro il Napoli e i napoletani).
E, come per i campioni olimpionici nella civiltà greca e magno-greca, l’intera comunità in quei valori si riconosce. Questo scudetto senza Maradona, con una classifica che vede agli ultimi posti solo squadre del Nord, può segnare l’inizio di qualcosa di inedito. Il racconto di un’Italia fatta di un Nord più e un Sud meno comincia a rivelarsi per quello che è: falso, razzista, opportunista. Magari lo scudetto è solo uno scudetto (si fa per dire), ma la consapevolezza meridionale del perché le cose stanno come stanno a Sud ha, scoperto il gioco. Con o senza scudetto (ma con è meglio…) qualcosa forse è finito per sempre.