Il 26 luglio alla sala Capitolare del Senato si è tenuto il convegno su lavoro e riformismo: “Quale futuro per il lavoro?!”.
Su iniziativa della senatrice Daniela Sbrollini, in collaborazione con la Fondazione Bruno Buozzi e Fabrizio Barbone Coordinatore Italia Viva Comune Roma – Municipio 1.
Che fine ha fatto il lavoro? E che fine hanno fatto i lavoratori? Nella società del terzo millennio non sembrano avere più voce né rappresentanza. Ma le vie d’uscita ci sono e questo convegno le ha volute indicare.
L’idea del convegno è nata dalla constatazione che il rapporto tra imprenditore, imprese, agenzia delle entrate, sindacati e Stato non portano al recupero delle società in difficoltà, con la conseguente perdita di posti di lavoro. In molti stati, esempio gli USA, il primo obiettivo non è la soddisfazione del creditore (che di solito è una frazione del dovuto, talvolta poco significativa), ma la preservazione dei posti di lavoro. A questo si aggiungono altri fenomeni che diminuiscono l’ampiezza del mercato del lavoro e in particolare: –
L’aumento dell’età pensionabile – La globalizzazione – L’aumento della produttività (innovazione tecnologica) A complicare il tutto abbiamo la necessità di riqualificare le persone esplulse dal mondo del lavoro perché le loro qualifiche non sono più richieste mentre mancano le nuove qualifiche richieste dalle imprese. In questa maniera i disoccupati rimangono tali mentre le aziende hanno difficoltà a trovare personale.
“Quale futuro per il lavoro?!”: grande successo a Roma per il convegno
Alcune considerazioni nascono da queste sintetica analisi: il mantenimento di ogni posto di lavoro è l’obiettivo essenziale del futuro, anche sostituendo alcune parti delle procedure concorsuali (esempio conversione in capitale sociale dei crediti ed estromissione del debitore se è l’attore dell’insuccesso). Un diverso approccio tra imprese, imprenditori, sindacati e Stato deve essere introdotto per perseguire l’obiettivo principale.
È appena il caso di segnalare che una società che fallisce ha una quota di mercato, questa quota non è sufficiente a coprire i costi aziendali. Il fallimento dell’azienda libera quella quota di mercato ai concorrenti, non sempre nazionali, senza rioccupare i dipendenti. Si è parlato dell’analisi del mercato, della normativa vigente, di alcuni casi aziendali di successo di recovery, dei rapporti tra istituzioni, sindacati, imprese, lavoratori, delle proposte, di sicurezza, di sport, di spettacolo e tanto tanto altro.
Il Ministero dell’Economia ha illustrato la complicata situazione sul versante della remunerazione economica del lavoro nel nostro Paese. Stando alle dichiarazioni presentate nel 2021 e relative ai redditi percepiti nel 2020, il 27 per cento dei connazionali guadagna in un anno meno di quindicimila euro; ben dieci milioni di italiani sono esentati dal pagamento delle tasse perché non ricavano abbastanza dal loro lavoro. Appena il 4 per cento dei contribuenti può contare su introiti annuali superiori a 70 mila euro; il 70 per cento, invece, si colloca tra 15 mila e 70 mila euro.
Il 26 luglio alla sala Capitolare del Senato si è tenuto il convegno su lavoro e riformismo: “Quale futuro per il lavoro?!”
È la fotografia di un Paese che si va impoverendo perché è diventato povero (e/o precario) il lavoro. Un processo che acuisce le già consolidate differenze geografiche, quella linea di frattura che la prima Repubblica almeno sino agli inizi degli anni Settanta (più o meno sino alla prima grande crisi energetica), provò a ricomporre con qualche successo ma anche con molte e tragiche manchevolezze dal punto di vista della pubblica moralità. Tra il reddito medio lombardo e quello calabrese corre una differenza di poco meno di diecimila euro (25.330 contro 15.630).
La “svalutazione del lavoro” è andata di pari passo con la trasformazione del lavoro e con una distribuzione dei lavoratori decisamente diversa da quella degli inizi degli anni Settanta quando oltre un terzo degli occupati era impegnato nel settore industriale. Oggi secondo i dati della banca Mondiale relativi al periodo 2010-2014, appena il 17 per cento degli statunitensi lavora in fabbrica; di poco superiore l’incidenza britannica (19,2); in Italia, Portogallo e Germania siamo nella media planetaria (28) mentre sopra quella media si collocano Polonia (30) e Iran (34). La Cina ha staccato tutti: 44 per cento.
In Italia, inoltre, la disoccupazione giovanile resta elevata, mentre si acuisce l’incomunicabilità fra domanda ed offerta sempre più orientata verso specializzazioni che il mercato del lavoro non è in grado di soddisfare. L’economia digitale provoca nuove diseguaglianze, non riduce le vecchie, richiede nuove scelte su diritti, tempo di lavoro, ricostituzione dell’ascensore sociale.
Hanno partecipato:
Giorgio Benvenuto
Daniela Sbrollini
Marco Lombardo
Luigi Angeletti
Antonio D’Alessio
Guglielmo Loy
Annamaria Parente
Roberto Pertile
Ettore Rosato
Marco Carlomagno inoltre
Roman Pastore
Renato Marconi
Giovanni Romano
Francesco Betrò
Enrico Antonelli
Raffaele Buranelli
Alfonso Morrone
ha moderato
Marco Ravaglioli