Home Economia Un Paese al bivio: ancora molta distanza tra Nord e Sud Italia

Un Paese al bivio: ancora molta distanza tra Nord e Sud Italia

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Autonomia differenziata

Il nostro giornale ha sempre scelto di impegnarsi sul fronte dell’analisi delle origini e delle cause dei divari socio-economici, su base territoriale, ancora persistenti fra il Nord e il Sud del Paese, dando voce ad un Mezzogiorno orgoglioso, efficiente e dinamico, che ha una storia antica, nobili tradizioni e tante potenzialità ed eccellenze. Lo facciamo, infatti, rappresentando le tante cose che anche qui funzionano, offrendo una narrazione diversa, rispetto agli stereotipi che siamo purtroppo abituati a sentire.

Così abbiamo fatto anche sul tema caldo attualmente in discussione in Parlamento con il disegno di legge sull’autonomia differenziata, a firma del Ministro Calderoli. Il dibattito politico in merito al ddl C. 1665 del Governo, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione“, approvato dal Senato23 gennaio 2024, oramai è in corso da circa un anno. Presso la 1ª Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati da alcune settimane si è avviato un ciclo di audizioni che ha visto intervenire i più insigni costituzionalisti, economisti, ma anche Enti e organizzazioni sindacali e datoriali, Confindustria, Banca d’Italia e tanti altri. In molti casi sono state assunte precise posizioni in merito al progetto di riforma, se non apertamente contrarie, quantomeno dubbiose circa l’utilità di riorganizzare in questo modo i rapporti fra lo Stato centrale e le Regioni.  La discussione rimane vivace e la posizione del Governo, attraverso quella del Ministro delle autonomie Calderoli, appare ancora intransigente.

Dalla riforma del Titolo V alle intese del 2018

Vero è che, con la riforma del 2001 del Titolo V° della Costituzione e poi con l’approvazione nel 2018 delle Intese delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, rispetto alle previsioni dei padri costituenti, si era già aperta una prospettiva diversa, in ordine alle modalità di instaurare il rapporto tra Stato e Regioni. L’attuale proposta di autonomia differenziata, nei termini ipotizzati dal disegno di legge, secondo la maggioranza dei costituzionalisti appare – tuttavia – andare ben oltre le previsioni ed il perimetro di legittimità costituzionale, rischiando seriamente di compromettere la coesione nazionale ed il futuro stesso del nostro Paese. Questo lo si capisce analizzando più compiutamente l’articolato del ddl Calderoli.

Il DDL Calderoli sull’Autonomia differenziata

Già il  primo articolo del disegno di legge 1665, che ne indica le finalità, al primo comma, quasi a voler rassicurare tutti coloro che manifestano dubbi e perplessità, precisa che la legge intende rispettare l’unità nazionale nonché i principi di  autonomia e decentramento amministrativo.

Tutte queste solenni rassicurazioni preliminari, sulla salvaguardia della coesione e dell’unità nazionali e sul rispetto del dettato costituzionale, appaiono –  invero – piuttosto declamate per celare una profonda riorganizzazione dei rapporti fra Stato e Regioni che si intende proporre con la legge, potenzialmente idonea a contraddire quanto invece nell’incipit serenamente affermato.  

Ogni spinta verso un accelerato decentramento asimmetrico di funzioni, proposto in tempi e con intensità diversa dalle regioni, non può che impattare sulla capacità dello Stato centrale di garantire coesione ed equità territoriale.

Continuando ad esaminare l’articolato del disegno di legge si nota come il comma 2 dell’art.1 si affretti poi a precisare che l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’art.116, terzo comma della Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e sociali è consentita subordinatamente alla determinazione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (LEP). Le materie a cui fa riferimento il terzo comma dell’art.116 sono tutte quelle della potestà legislativa concorrente, di cui al terzo comma dell’art.117, in numero di 20, e tre delle materie della potestà legislativa esclusiva dello Stato, elencate all’art.117, secondo comma.

 In sostanza, per questa via, tutte le materie che attengono più strettamente ai diritti civili e sociali della potestà legislativa (concorrente ed esclusiva) dello Stato possono essere trasferite alle Regioni in base alle intese che si potranno stipulare (fra lo Stato e ciascuna Regione che ne faccia, eventualmente, richiesta) con il procedimento delineato dal successivo art.2  del ddl.

     L’asimmetria proposta nella ripartizione  di funzioni già di per sé determina un quadro complessivo di criticità, difficilmente governabile,  in quanto – tra regioni che chiederanno l’intesa per certe funzioni e non per altre, tra quelle che ne  chiederanno di diverse o tutte, tra quelle non interessate a stipulare alcuna intesa – si avrebbe una realtà talmente frammentata e composita, con conseguente grave lievitazione di costi di gestione delle tante nuove organizzazioni e strutture burocratiche da istituire, circostanza che non  appare minimamente considerata e stimata dalla legge che, anzi, all’art.9 prevede l’invarianza finanziaria.

    Dunque, con l’autonomia differenziata attraverso le intese potrebbero essere richieste dalle Regioni materie o ambiti di materie  di tale rilevanza che, di fatto, svuoterebbero lo Stato centrale di ogni concreta prerogativa legislativa, che verrebbe limitata a pochi ambiti di materie:  politica estera e ai rapporti con la UE, all’immigrazione, ai rapporti con le confessioni religiose, alla difesa, all’ordine pubblico, alla previdenza sociale, alla moneta e a poche altre materie o ambiti residuali.  

    Al contrario, alle Regioni, a seguito della determinazione dei LEP e dei costi e fabbisogni standard, potrebbero essere assegnate quelle materie  elencate al terzo comma dell’art. 3 del disegno di legge: la tutela della salute, l’istruzione, la ricerca scientifica e l’innovazione,  l’ambiente, il governo del territorio, la tutela e sicurezza del lavoro, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, l’ordinamento della comunicazione, la  produzione, trasporto e distribuzionale nazionale dell’energia, i  porti e aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali e organizzazione di attività culturali.

     Inoltre, sempre alle Regioni, anche senza la determinazione dei LEP, sulla base della semplice stipula di intese, ai sensi dell’art.4 , comma 2,  sarebbero attribuite    anche quelle  relative a materie o ambiti di materie diversi da quelli appena elencati: rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni, commercio con l’estero, protezione civile, professioni, previdenza complementare ed integrativa, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

Il trasferimento di funzioni

 La vera “polpa” delle materie e delle connesse funzioni che si propone, in tal modo, di trasferire ai sensi del successivo art.4 del ddl, andrebbe alle Regioni, relegando al margine il ruolo dello Stato, che – a questo punto – non avrebbe più alcuna significativa funzione e competenza da esprimere negli ambiti dei diritti civili e sociali. Cosa ancor più grave,  è che questo accadrebbe,  peraltro, senza alcuna previsione economica circa la sostenibilità dell’invocata riorganizzazione delle funzioni.

Se tutte le autonomie territoriali ne facessero richiesta, avremmo 21 diversi sistemi  autonomi di Stato-Regione, con una propria burocrazia  che, se potrà liberamente riorganizzarsi e ristrutturarsi, non potendo contare su alcuna economia di scala ed unitarietà d’indirizzo, avrà costi esorbitanti e, probabilmente, insostenibili per ciascuna autonomia territoriale, oltre a confliggere apertamente con i sistemi di  altre autonomie e con quella dello Stato centrale con cui dovranno necessariamente relazionarsi per la gestione di servizi comuni e per quelli (in pratica tutti) di portata  e dimensione sovraregionale (si pensi ai trasporti, alle reti di comunicazione, alle grandi infrastrutture, all’energia, all’ambiente, ecc.), che non possono essere confinati nell’ambito territoriale di una singola regione.

Il solo pensare, ad esempio, che per una grande rete di comunicazione nazionale, che attraversa più territori, un pezzo di essa lo decida una Regione, un altro pezzo un’altra Regione in altro modo e così via, appare cosa davvero assurda.  Se analizziamo, quindi, il disegno di legge in esame, dal punto di vista dell’organizzazione dello Stato, ci si rende agevolmente conto dell’assoluta non convenienza a devolvere alle Regioni anche quelle funzioni che sono da considerarsi strategiche per il futuro del Paese. Dove ci sono quelle sfide importanti (grandi vie di comunicazione, aeroporti, porti, commercio estero, energia, ambiente, formazione e ricerca), non si può immaginare di essere efficienti, quando sono presenti 21 diverse autonomie regionali, che decidono in maniera del tutto autonoma rispetto a tematiche, che dovrebbero essere, invece, di interesse nazionale ed internazionale.

Le scelte strategiche devono essere almeno di portata europea; altrimenti, non ci sarebbe neppure la massa critica sufficiente per poter stare al passo dei giganti della competizione globale. Pensare che, con l’autonomia differenziata e con la parcellizzazione dei territori e degli interessi che ne consegue, sia comunque possibile stare nella competizione globale, sembra davvero incredibile.

I rischi dalla regionalizzazione della scuola

Con la regionalizzazione della scuola, ad esempio,  si corre il rischio di avviare un vero e proprio processo di disgregazione del sistema nazionale dell’istruzione: programmi diversi a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriali e meccanismidi finanziamento differenziati. L’istruzione è anche la voce più rilevante dal punto di vista finanziario: circa 5 miliardi dieuro in Lombardia e poco meno di 3 miliardi in Veneto, una quota compresa tra il 15 e il 18% dei rispettivi bilanci regionali.

Secondo la SVIMEZ, con l’autonomia differenziata si rischia di adattare l’intensità dell’azione pubblica alla ricchezza dei territori, prevedendo  maggiori investimenti nelle aree che se li possono permettere, pregiudicando la funzione principale della scuola: «fare uguaglianza».

Sul tema scuola, si segnala la presa di posizione del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, che in una recentissima intervista concessa ai giornali  nei giorni scorsi, ha proposto di dare più poteri alle Regioni nell’organizzazione scolastica ed incentivare i candidati docenti a spostarsi al Nord, attraverso il riconoscimento di bonus economici per viaggiare e trovare casa in affitto a prezzi calmierati,  per far fronte alle carenze di organico nelle scuole settentrionali.

La misura  proposta avrebbe  lo stesso impatto e andrebbe nella stessa direzione  dell’offerta ai docenti di contratti integrativi, posti a carico delle Regioni che stipuleranno le intese, che da qualche tempo si paventa, e che se si somma a quest’ultima, oltre a creare squilibri e discriminazioni nel settore e forse avere anche qualche profilo di incostituzionalità,  determinerebbe una vera e propria fuga dei docenti meridionali verso il Nord.

Eppure Valditara è lo stesso ministro che, solo nel novembre del 2022, con comunicazioni ufficiali dichiarava pubblicamente di non considerare la “regionalizzazione” della scuola all’ordine del giorno.

Tra gli effetti dell’autonomia differenziata e tra le probabili richieste delle Regioni più ricche che chiederanno l’intesa con lo Stato, si parla – infatti – da tempo della possibilità di stipulare contratti integrativi, oltre che nel settore istruzione, anche in quello sanitario. Se ciò accedesse davvero, le conseguenze sarebbero dannose e dirompenti per il Mezzogiorno, con la fuga di massa, da qui, di docenti ed operatori del settore sanitario.  Il gravissimo spopolamento già in atto, diventerebbe allora inarrestabile, determinando una vera e propria desertificazione sociale ed economica del Mezzogiorno.

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